Wednesday 4 February 2009

archivio (31) Amin

Lo chiamiamo Amin, abbreviazione del suo nome completo, che comincia per Sheik, sceicco, e riempie una riga intera. E' di Dacca, capitale galleggiante di quel paese al confine fra l'acqua e la terra che e' il Bangladesh. Essere Sheik e' come essere nobili da noi: infanzia nelle terre di famiglia, Lumumba University a Mosca, dove per breve tempo ebbe una moglie russa, poi scambiata per una del suo paese. In seguito, quando sono cambiate le cose, PhD alla scuola di medicine pubblica di John Hopkins University negli Stati Uniti. Era un collega, ora e' di piu'. Quando io ero a Londra lui era tornato in Bangladesh, ora che sono a Hong Kong lui e' nell' ufficio centrale a New York. Ci incontriamo abbastanza spesso nel corso di questi ultimi tre anni: recentemente a Bangkok per un corso di formazione (dove noi formavamo altri), e le due settimane scorse a Dubai per una conferenza. Amin sorride sempre, e' un tipo allegro. E' il prototipo dei musulmani moderati: ragiona pacatamente, non disdegna la birra e il vino e neanche la vodka (ma non in presenza dei suoceri), a pregare rivolto alla mecca non ci pensa nemmeno, non ha un atomo di intolleranza, e' bravissimo nel suo lavoro, e' sorgente preziosa di riferimenti alla poesia islamica, tuttora arte popolare come non piu' in occidente. Amin non e' molto alto, e' rotondetto, soffre di un dolore alla schiena quasi permanente, non aiutato dall'enorme borsa di pelle nera carica di carte, documenti in corso, portatile eccetera che si porta sempre appresso appesa alla spalla sinistra. A guardarlo da vicino si vede che ha il naso e le guance rovinati da piccoli crateri scavati nella pelle. Non gli ho mai chiesto, ma so che fu fra gli ultimi a prendersi il vaiolo nel suo paese, prima che fosse completamente eradicato dalla faccia della terra nel 1980. Mi considero fortunato ad essere in confidenza con lui: per qualche motivo gli sto simpatico, forse perche' intuisce il rispetto e lo ricambia. E' uno dei pochi che viaggia con libri in valigia, e abbiamo uno scambio continuo in corso appena li finiamo di leggere. L'ultimo scambio e' stato disproporzionatamente a mio vantaggio: la sua prima edizione di "Travels with a Tangerine" di Tim Mackintosh-Smith (sottotitolo: "un viaggio nelle note a pie' di pagina di Ibn Battuta") in cambio del mio nuovo e appena finito "Post Capitain" di Patrick O'Brian, uno della serie di Jack Aubrey e Stephen Maturin, splendida letteratura navale ambientata al tempo delle guerre napoleoniche, fra bordate e duetti di violino e cello. Senza accorgercene abbiamo forgiato un'alleanza all'interno dell'organizzazione dove lavoriamo: io mi riferisco a lui ogni volta che si discutono strategie e politiche interne o programmazioni a lungo termine, lui si associa a me in qualunque discussione sulla sostenibilita' del lavoro in posti come la Cina o l' Etiopia, quando si parla di cambiamenti in policy, o quando la professionalita' del personale in posti lontani e' messa in dubbio negli uffici centrali, covi di mezze calzette la cui presuntuosa ignorantaggine e' pari solo alla di essi correttezza politica. 
A Bangkok ci divertimmo moltissimo dal sarto Bengali, a scegliere stoffe e stili per i vestiti e le camicie che era deciso a farsi fare, essendo sottinteso che in quanto italiano non avrei potuto dargli cattivi consigli nemmeno volendo. Non che ne abbia bisogno: ha uno stile tutto suo, rinforzato dalla totale assenza di vanita'. Il sarto era Bengali pure lui, ma di estrazione popolare: avere uno sheik nel negozio fece esplodere un frullare di attivita' collaterali quali portare il te', mandare via clienti occasionali, fare portare rotoli e scampoli dai negozi vicini per ampliare l'offerta, mentre io, seduto sul divano commentavo con lui - che entrava e usciva dal gabinetto di prova - colori e stoffe. 
A Dubai quasi ogni sera dopo cena tenevamo corte in camera sua in albergo: visitatori venivano con bottiglie varie, e seduti sul letto o sulle poltrone si evisceravano i fatti della giornata, le implicazioni a lungo termine, le strategie da adottare, fra sorrisi e nuvole di fumo azzurrino di sigarette arabe. Siamo ripartiti assieme l'altra sera, io per l'est e lui per l'ovest: ci siamo salutati abbracciandoci all'ingresso dell'aeroporto: sapevamo che il mio passaporto EU mi avrebbe fatto passare controlli e procedure come portato dal vento, mentre il suo passaporto del Bangladesh lo avrebbe inevitabilmente portato alla fila per controlli speciali, interrogatori tanto inutili quanto offensivi, ritardi. Non c'e' piu' animosita' ne' risentimento per questi fatti: lui li accetta come inevitabili, ne' sono io tentato di dire inutilita' su quanto tutto cio' sia ingiusto: il mondo e' cosi': ognuno per la sua strada fino alla prossima volta, e grazie a Dio, il misericordioso e compassionevole, per la buona salute, e per l' email. 

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