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Friday, 16 March 2012

Chiamatemi Mike Papa.

Quando ero in Etiopia, dove ho vissuto in molte case visti gli anni che ci sono stato, c'era sempre un omino che stava nel casotto vicino al cancello, e si occupava di aprire e chiudere, di annaffiare il giardino, e di fare la guardia di notte. Zabagná si chiama la guardia in amarico. Anche se l'omino si chiamava variamente Asfau, Bekkelé, Tìmrat. Nel casotto aveva la branda e la radio, ed era sempre avvolto nel suo sciàmma bianco di cotone, abito tradizionale dei montanari etiopi. Di notte sopra lo sciàmma si gettava il gabi, un largo tessuto di cotone bianco con un piccolo ricamo colorato all'orlo, ripiegato in quattro strati (o anche otto), a mò di cappa: piegato a triangolo, passato sulle spalle e sulla testa, il lato lungo passato davanti al petto e gettato sulla spalla opposta. Non solo caldissimo, ma anche bello a vedersi. E utile: il gabi, una volta aperto serve anche da coperta, copriletto, tenda, tappetino per fare l'amore...lo so, il mio mi ha seguito fin da allora ed è ancora con me.

...e in tutti quegli anni non è mai capitato che ci sia stato bisogno dei servizi di guardia dello zabagnà. Contro i ladri dico. Mai entrato nessuno. Certo, c'erano anche i cani, sopratutto una figlia di Shelly, il canazzo bianco di cui dicevo prima. Questa era uguale a Snoopy dei Peanuts - bianca e nera, pelo lungo con frangia sugli occhi come il pastore dei cartoni animati, intelligentissima. Snoopy era la mia cane, ed è vissuta con me fino a quando sono rimasto in quel paese.
Dove sono ora invece, in Ruanda, è tutto molto diverso. Non è necessariamente un male. Visto che sono qua da poche settimane, dopo essere passato dall'hotel alla casa/ufficio che ho preso per conto della gente per cui lavoro, non ho pensato subito a prendere una guardia - che qui si chiama zabu - sopratutto perchè non c'era niente da rubare. La casa è grande ma è anche vuota. Solo qui in camera mia c'è il letto con zanzariera, un tavolo per il computer, una sedia, e il cestino (bello, comprato per strada) per la lavanderia. Di là, nella parte dedicata ad ufficio c'è una scrivania con sedia da ufficio, uno scaffale, e un mobiletto per tenere la stampante. Ancora poco, anche se più un là ci saranno altre cose. Sulla scrivania ci avevo messo il laptop nuovo dell'organizzazione che mi avevano dato prima di partire. Non che l'abbia usato molto: sono talmente abituato a quello mio che ho da sempre - questo, veterano della Cina - che l'altro l'ho usato poco e niente. Anche perchè è politica della compagnia di guardarti nel laptop a distanza - da Oxford addirittura - ed è scritto chiaro nella documentazione che nessuno deve presumere alcuna forma di privacy usando il computer di lavoro - ovviamente la gente passa troppo tempo su facebook...

Insomma, questo laptop era sulla scrivania l'altra notte. A circa un metro mezzo dalla finestra che dà sul giardino davanti casa, che avevo lasciata aperta, come sempre. Tanto ci sono sempre 25 gradi. Però...ci sono le sbarre di ferro a tutte le finestre, e la retina metallica per tenere gli insetti fuori. Come a tutte le finestre. Quindi io ero tranquillo a casa da solo.

Verso le tre del mattino un crash dall'altra stanza mi sveglia. Rumori. Mi alzo e vado a vedere. Appena entro di là vedo che in casa non c'è nessuno, ma fuori si. Qualcuno alla finestra con un lungo bastone di legno infilato fra le sbarre, la retina metallica tirata via. Alla fine del bastone (come risulterà dopo) c'è appesa una busta di plastica, e con una scopa maneggiata con l'altra mano il tipo ha spinto il laptop fino al bordo del tavolo e l'ha fatto cadere nella busta. Dopodiche' si è tirato il bastone fino alle sbarre, ha preso il laptop con le mani e l'ha fatto scivolare fra le sbarre. Qui è stato quando mi ha svegliato, perchè il mouse che era attaccato al computer, rimasto fuori dalla busta è caduto per terra andando in mille pezzi e svegliandomi.

Insomma, sono arrivato un attimo troppo tardi. Il tempo che mi sono reso conto e sono arrivato alla finestra il tipo era giá girato di spalle, bastone e scopa abbandonati, laptop stretto al petto, e stava correndo verso il muro di cinta per scavalcarlo e fuggire nel buio. L'ho intravisto da dietro, poco più di un'ombra. Troppo tardi.

L'indomani polizia, denuncia e così via. Scrivo al quartier generale dell'organizzazione per far loro avere la denuncia così che possano fare la trafila con l'assicurazione, e loro mi dicono di fare subito un contratto con una compagnia di vigilanza. OK.

Qui a Kigali ce n'è più di una. Ambasciate, ditte e privati vari hanno tutti il cartello appeso al cancello che avverte che la proprietà è guardata da questa o da quella ditta. Scrivo un'email a quella che mi piace di più - giudicando dal sito web - e quelli mi rispondono in dieci minuti. Dopo un'ora viene un rappresentante a vedere la proprietà e a farmi un preventivo. Discutiamo - offrono sorveglianza 24 ore al giorno in due turni di dodici ore ad un prezzo ragionevole. Accetto e lo stesso pomeriggio vado a firmare il contratto. La loro sede è vicina, fuori hanno un plotone di nuove guardie che fanno esercizi sotto gli ordini di un ex-sergente dell'esercito. Si presentano bene: scarponi lucidi, pantaloni rimboccati negli stivali, camicia blu, berretto con lo stemma. Manganello e radio. Niente armi da fuoco, solo la polizia può portarle. Mi mostrano la centrale operativa, mi danno istruzioni e numeri da chiamare. Firmo. Pagamento dopo il primo mese di servizio.

La sera stessa il supervisore di zona della compagnia arriva con la mia guardia. Si chiama Yannick. Si mette sull'attenti e mi fa un saluto da soldato. Riposo, riposo. Gli indico dove può stare sulla veranda fino a quando una garitta vicino al cancello sarà completata, gli faccio vedere le luci esterne e il cesso esterno che c'è dietro la casa. Tutti contenti. Il supervisore chiama la centrale operativa al telefonino e in Kyniarwanda blatera qualcosa sulla guardia ora operativa nella nuova locazione 'mike papa'. Capisco solo 'mike papa'. Lo guardo e gli chiedo: 'Mike papa sono io, vero?' Quello spalanca gli occhi, poi ride, e conferma. Lo saluto, e tanti saluti e sono.

Ora siamo tutti piú tranquilli. Il collega di Yannick è qui fuori che si guarda le luci di Kigali e mi sente battere sui tasti (le finestre sono sempre aperte, anche se ci sono le tende tirate), io scrivo, e la garitta è quasi pronta, la faranno blu, come le camicie dell'uniforme di KK Security.

Ma io ho una nostalgia dello zabagnà avvolto nel gabi...

Saturday, 10 March 2012

I biscotti atomici.

Una storia da Musungu, mi dicono.

Piu' che da musungu direi da ferengi. Cosi' chiamano i bianchi in Etiopia, ex Abissinia, ex Africa Orientale Italiana.
Ero li' nel 1993. Lavoravo per un'organizzazione di aiuti e sviluppo irlandese. Noi eravamo specializzati in assistenza medica agli ospedali e alle cliniche locali, ma lavoravamo anche con i bambini di strada, gli orfani, e ovviamente le emergenze - siccita', carestia eccetera.

Un giorno telefona l'ambasciata inglese e il tipo, con l'accento tremendamente britannico, come tutti quelli che lavorano per il Foreign Office, dice:
- Abbiamo ricevuto una consegna non piccola di biscotti a lunga conservazione, e li stiamo distribuendo alle varie NGO inglesi e irlandesi nel paese. Domani ve ne manderemo un carico

Io mi preoccupo subito. In inglese 'non piccola' vuol dire enorme. Ma prima di poter rispondere 'Ma veramente noi...'
- Thank you. - Click -

L'indomani mattina ero fuori dalla sede, e quando sono tornato mi ricordo che ho dovuto parcheggiare per strada perche' dentro lo spazio era occupato da un FIAT 682N3 - camion storico della presenza italiana nel paese nel dopoguerra (il che mi ricorda che nel 1980 ad Acireale lo usavano ancora per raccogliere le arance...)
Il camion era sovraccarichissimo di confezioni di biscotti da dieci chili, in latte verde militare racchiuse - quasi tutte - in una scatola esterna di cartone. I ragazzi locali dell'organizzazione erano indaffaratissimi a scaricare il camion - all'etiopica, cioe' due di loro erano sopra e facevano cadere le latte fra le braccia di quelli a terra, i quali le portavano in magazzino. Mi sono fermato a guardare un attimo prima di entrare in ufficio, e in quel momento uno dei ragazzi perde la presa, o gli scivola la latta, la quale finisce per terra con forza ed esplode letteralmente con un BANG!. Il coperchio della latta e' volato come un petardo, biscotti ovunque nel cortile. Non puo' essere. I biscotti non esplodono...

Allora guardiamo bene e scopriamo che le confezioni esterne di cartone hanno tutte stampata la scritta MoD - Ministry of Defense, e sotto c'e' stampigliata la data di produzione: 1959 e 1960. Biscotti vecchi come me all'epoca. Poi, sotto la lattina scopro anche che la confezione e' sotto pressione, riempita con gas inerte. Questo spiega l'esplosione, ma biscotti di 33 anni?

Vado dentro e telefono all'ambasciata. Voglio chieder loro, in inglese ovviamente 'Ma che minchia ci avete improsato?'
La tipa dall'altro lato del telefono e' apologetica. Spiega che sono una parte delle riserve alimentari che il Ministero della Difesa britannico aveva accumulato nei rifugi anti-atomici costruiti nei primi anni sessanta, quando ancora la guerra fredda era una cosa seria. I rifugi, costruiti per il governo, il Parlamento e le loro famiglie, erano rimasti intatti, mai usati e pieni di provviste ed equipaggiamento, in attesa di un inverno nucleare mai arrivato.

Quindi, nel 1993, dopo la caduta del Muro di Berlino, la caduta dell'Unione Sovietica e la fine della Guerra Fredda, il governo aveva decommissionato i rifugi antiatomici, svenduto l'arredamento e l'equipaggiamento, e donato i biscotti al Ministero per lo Sviluppo Internazionale, il quale penso' bene di mandarli in Africa. E in Etiopia ne arrivo' una nave intera - qualche quarantamila tonnellate.
Di biscotti.
Del 1960.
Che esplodono se maneggiati con noncuranza.
Dai rifugi antiatomici.

Li chiamammo subito, ovviamente, biscotti atomici. Atomic biscuit.

La cosa che mi preoccupava veramente era che Shelly, il canazzo bianco da guardia orbo da un'occhio (veterano di cento battaglie per l'osso) che viveva in quel cortile, di assaggiare i biscotti sparsi per terra dopo la prima lattina esplosa non ne voleva sapere assolutamente. E Shelly era un cane che si mangiava anche le pietre.

Quindi ne prendo una latta inesplosa e la porto all'Istituto Pasteur di Addis Abeba, dove richiedo un'esame chimico approfondito per stabilire se i biscotti siano commestibili e in ogni caso adatti all'alimentazione umana. Dopo un paio di giorni, coi biscotti bloccati in magazzino, l'Istituto risponde favorevolmente, e possiamo cominciare a distribuirli alle varie cliniche rurali, dove li useranno come alimentazione supplementare di emergenza per bambini e adulti malnutriti. Tutto e' bene quel che finisce bene, e c'e' un certo equilibrio che i biscotti fatti per la guerra alla fine siano serviti ad uno scopo di pace. Che poi dovevano essere nutritivi, pensati com'erano per Lords e Ministri nascosti sottoterra possibilmente per anni...

Comunque, visto che Shelly continuo' a storcere il naso ai biscotti atomici per tutto il tempo che ci mettemmo a liberarcene, presi consiglio da lui e non ne assaggiai mai nemmeno io.

Monday, 2 March 2009

archivio (61) Una serata sportiva

Novembre 1991. Sono appena tornato in Ismailia dopo dieci miserabili mesi trascorsi in Italia, nelle colline metallifere fra Siena e il mare. 
Sono tornato in Ismailia a lavorare per una ONG inglese. Mi hanno preso perche' ho esperienza del paese. Se hanno dubbi sulla capacita' di un italiano ad accettare a adottare la loro etica lavorativa non lo danno a vedere.
Mi presento al lavoro il giorno dopo il mio arrivo. Il capo progetto e' una donna. Alza la testa dalla montagna di carte sul tavolo, si alza, mi stringe la mano, mi da' il benvenuto. Mi chiede se voglio un caffe'. Dico si, e mi mordo il labbro, ma e' troppo tardi. Lei stessa si alza e va in cucina (l'ufficio e' in una casa affittata nei suburbi della capitale). Torna con due boccali di plastica pieni di risciaquatura di piatti Nescafe'.
Mi aspetto un periodo di adattamento e di introduzione, ma sbaglio.
"Conosci l'ex caserma della Guardia Imperiale?"
"Quella fuori citta', sulla strada per Embo?"
"Quella. Vi abbiamo installato una clinica di emergenza tre mesi fa quando i Ghimbini sono entrati nella capitale. Ieri la nostra gente la' mi ha mandato questa lista di cose di cui hanno bisogno. Vai in magazzino, fai il carico e portaglielo. E quando torni dimmi cosa ne pensi".
"OK capo"
Sorride, ma non davvero. "Non mi chiamare capo"
Chiudo la bocca, mi ricordo che questa donna era qui da sola a tenere i progetti in funzione mentre le bombe esplodevano, le ambasciate evacuavano, i bianchi fuggivano e i ribelli Ghimbini marciavano sulla capitale, solo pochi mesi fa. Prendo la lista, annuisco e vado. Lei e' gia' concentrata su qualche altra cosa.
Il magazziniere dell'Organizzazione e' un vecchio Ismailita grinzoso con un sorriso grande come una casa. Mi presento, gli dico chi sono e che sono nuovo, gli do' la lista. Si siede al suo tavolino, inforca un paio di occhialoni a fondo di bottiglia e ridacchia fra se' e se' in Amende "Hihihi...troppo lavoro oggi, troppo lavoro per il vecchio Bekke..." si alza lentamente, si avvia verso gli scaffali. Prendo uno scatolone vuoto e lo seguo. Disinfettanti, bendaggi, garze, antiinfiammatori..lo scatolone e' presto pieno, ne prendo un'altro, poi un'altro ancora. Sembra che stia andando a rifornire un pronto soccorso. Antibiotici. Antimalarici. Vitamina A. Reintegratori salini per dissenteria, ancora antibiotici...Aureomicina. Questo vuol dire stafilococchi...quando il carico e' pronto il vecchio Bekke mi dice "Vai a farti dare una macchina"
L'autoparco e' una baracca di ferro ondulato in un angolo del cortile. C'e' una bacheca con numeri di targa, chiavi appese ed un registro. Non c'e' nessuno in giro, ma decido che non ho tempo da perdere. Prendo un mazzo di chiavi, firmo il registro, trovo la macchina, torno da Bekke, carico, firmo il suo registro, mi da' una copia dell'ordine e mi manda via. 

Il posto non e' a piu' di un' ora fuori citta', vicino. Lo scenario dell'altopiano e' familiare. Novembre e' tempo di raccolto: gialli covoni nuovi si ergono accanto alle capanne degli Ismailiti, i campi tosati da poco seccano al sole primaverile. In quasi ogni aia mucche e buoi legati assieme girano in tondo sulle spighe per terra, trebbiano come si trebbia da migliaia di anni. Le donne raccolgono le spighe in mucchi, gli uomini le alzano al vento con pale di legno intagliate a mano. La pula vola via come polvere ad ogni alzata di pala.
Mi scuoto. Ismailia e' bella. Guarda la strada. Stai portando medicine. Accellera. Sigaretta.
Arrivo alla caserma. E' chiusa da un alto muro. Le sentinelle sono Ghimbini, capelli afro, giacche mimetiche e sandali. Kalashnikov in braccio. Vedono il simbolo dell'organizzazione dipinto sullo sportello e mi fanno entrare senza fermarmi. Dentro, grandi spazi. lunghe baracche a dormitorio, a dozzine. Piazza d' armi. Mi guardo in giro, seguo le frecce dipinte a mano verso la clinica. 
Chi sono questi? mi chiedo. dozzine, centinaia di uomini. In stracci. Senza scarpe, tutti con cio' che rimane di una divisa addosso. Prigionieri, ecco cosa sono. Amende. Soldati dell'ex Repubblica Socialista di Ismailia, crollata pochi mesi fa come il Muro di Berlino poco prima, abbattuta dal crollo dell'Unione Sovietica, dallo scontento interno, dalla poverta' e dai Ghimbini, confermatisi guerrieri duri come i loro antenati.
Raggiungo la clinica, parcheggio accanto alle altre macchine dell'organizzazione. Ci sono due infermiere, una inglese ed una irlandese, piu' qualche civile Ismailita che lavora per noi. Una lunga fila di prigionieri aspetta fuori, snodandosi attorno alla baracca, tentando di tenersi all'ombra. Vedo bendaggi sporchi di sangue, intravedo moncherini coperti di garza. Un paio di guardie tengono d'occhio, ma tutti sembrano molto rilassati e tranquilli. 
Non faccio perdere tempo a nessuno, scarico e porto dentro il materiale. L' irlandese ha i capelli rossi ed e' grassottella, ma quando mi stringe la mano mi fa quasi male. Rapidamente controlliamo la consegna, firma, ciao, ci vediamo piu' tardi. 
Esco, risalgo in macchina, guido verso l'uscita, piano. Attraverso la piazza d'armi. Prigionieri ovunque. Mi rendo conto che sono tutti ufficiali e sottufficiali, non vedo nessun soldato semplice. Improvvisamente vedo qualcosa muoversi in un angolo della vasta piazza e mi fermo a guardare meglio. Hanno teso uno spago fra due baracche, e stanno giocando a pallavolo con una palla fatta di stracci. Ma si muovono in maniera strana. Guardo meglio. Due sono senza una gamba, saltellano su quella rimasta. Altri hanno un solo braccio. E c'e' uno seduto per terra, si muove sulle mani, rapido come un ragno, va sotto la palla, la colpisce. Non ha gambe.
Non resisto, me ne vado. Torno in citta'. 

Arrivo, riferisco alla capo. 
"Cosa ne pensi?"
"La clinica va bene, le infermiere sanno il fatto loro. I prigionieri non hanno niente da fare. Quando li lasceranno andare?"
"Chi lo sa? erano ufficiali, politicamente indottrinati. Vorranno essere sicuri di consolidare il controllo prima di lasciarli andare".
La guardo negli occhi. Difficile, feriscono lo sguardo da quanto sono azzurri. "Senti, ho visto che tentano di fare sport, giocano con palle di stracci come i bambini di strada. Potremmo dagli qualche palla vera?"
"Mmm...non vedo perche' no"

Passo il resto della giornata a capire come funziona l'organizzazione. Ragioneria, contratti, logistica, progetti, personale. Il tempo vola.
Alle cinque esco e vado in citta'. Se c'e' una macchina libera ho il permesso di usarla, la nafta e' a mio carico.
Trovo il negozietto dove ricordavo che fosse. Articoli sportivi, fatti in Cina. Compro una rete e due palle da pallavolo, una palla da calcio vera e una pompa a mano. Poi, sentendomi molto stupido, ritorno alla prigione. Arrivo poco prima del tramonto. Le guardie fuori sono le stesse e mi fanno entrare senza dirmi niente. Vado direttamente dove avevo visto che giocavano. Non c'e nessuno, ma c'e' lo spago. Ci vado sotto e lo guardo da vicino: strisce di stracci annodate. Torno in macchina, prendo la rete nuova che ho portato: e' un affare di nylon verde, niente di speciale ma regolamentare. Torno sotto lo spago, salto, lo afferro a due mani e lo strappo giu'. Poi procedo ad appendere la rete. E mi rendo conto di avere fatto una cosa stupida: non arrivo alla grondaia dove era appeso lo spago, e non ho scale...qualche prigioniero comincia a fermarsi per vedere cosa sta facendo questo stupido ferengi
Prendo la macchina, la parcheggio sotto la grondaia, salgo sul cofano, annodo la rete, sposto la macchina, annodo l'altro lato. Levo la macchina da mezzo i piedi. Che polvere. Sto facendo un rodeo fra le baracche, tutto da solo. Scendo, annodo la rete sotto, la tendo. Faccio qualche passo indietro, guardo. Va bene. 
Prendo la palla dalla macchina. Sono in jeans, scarponcini e camicia. Vado sotto rete, mi giro, alzo la voce "Chi vuole giocare?"
Ci sono una dozzina di prigionieri intorno. Uno si avvicina. Non e' Ismailita, nonostante abbia la divisa con le insegne dei carristi, seppure a brandelli. E' sudanese. Si vede dalla faccia, dal colore della pelle, dalla statura e dalle cicatrici tribali. Mi guarda, in perfetto inglese mi chiede: "Perche' stai facendo questo?"
"Perche' no?"
Gli passo la palla. Lui la prende al volo, la stringe fra le le mani, con un colpo di polso la fa roteare sul dito. Un sorriso bianchissimo gli si allarga sul volto.
"Giochiamo"
In pochi minuti abbiamo fatto le squadre. Con mia sorpresa gioco anche io. Avevo creduto di dar loro la rete ed andare, ma gli Ismailiti non accettano la carita' cosi' facilmente. Voglio che giochino? devo fargli vedere di essere in grado di farlo io stesso.
Ringrazio gli anni al liceo, quando il prof di educazione fisica faceva giocare invariabilmente solo a pallavolo perche' era un fissato...io la odiavo, all'epoca ero gia' un giocatore di basket...ho giocato a basket per quindici anni...comunque a pallavolo me la cavo. E meno male. Il sudanese non mi risparmia. Ha un alzatore con una gamba amputata sotto il ginocchio il quale gli mette la palla a filo di rete senza neanche guardarla. Il sudanese arriva da dietro raccolto come il leopardo, si alza, si stende, schiaccia come un martello. La palla alza nuvole di polvere da terra. A fare muro siamo io e un Ismailita coi baffi. Lui ha una mano sola, l'altro braccio gli manca dalla spalla in giu. Ma salta come un grillo, e con tre mani muriamo il sudanese efficacemente. 
La mia squadra ha il tipo senza gambe: sorride come un ragazzino a giocare con la palla vera. Ha il disotto dei pantaloni imbottito con stracci, si muove sulle mani, braccia gonfie di muscoli, va sotto i pallonetti, alza bene.
E' una partita vera: nessuno risparmia nessuno. Il sudanese ed io siamo gli unici ad avere tutti gli arti. Si suda, si grida, si combatte sotto rete. Mi alzano la palla, e dopo un paio di tentativi mosci mi ricordo come si schiaccia, e ci prendo gusto. L'altra squadra ha un tuffatore incredibile, arriva alle palle piu' lontane. Non ha le mani, colpisce di avambracci, giunti ai moncherini dei polsi, come se pregasse. Ma ha un sorrisone in faccia. Giochiamo fino a che fa buio. Vinciamo, la folla esulta. La folla?....mi guardo intorno: sembra che ci sia tutto il campo di prigionia a vedere la partita.
Suona la chiamata al rancio serale per i prigionieri. Do' loro le altre palle che ho portato, saluto, strette di mano, pacche sulle spalle mi piovono da tutte le parti. Il sudanese mi mostra il pollice alzato. Le guardie mi fanno segno di andarmene. 

Mi sono divertito moltissimo.


Monday, 9 February 2009

archivio (58) Storiella africana

Qualche anno fa guidavo lungo la ex-strada imperiale che porta ad Harar. Bellissima strada, ancora perfetta dopo piu' di sessanta anni. Certo, non c'e' asfalto, ma il profilo della carreggiata e' ancora buono, le curve non hanno mai meno di ottanta metri di raggio, e il panorama e' degno: prima l'altopiano, poi il deserto, poi la savana, poi ancora le montagne. 560 chilometri da sogno, che di solito si potevano fare in otto ore, spingendo. 
Era ormai tardo pomeriggio, e dato che non volevo farmi sorprendere dal buio ancora sulla strada, andavo veloce. Traffico non ce n'era. Mentre risalivo sulle larghe curve che dalla valle di Irna portano sul Cercér orientale, da un lato la montagna e dall'altro la scarpata e poi giu' la valle, un gregge di pecore spinte da un pugno di pastorelli che risalivano la scarpata irruppero sulla strada trenta metri davanti a me. 
Di sterzare, non se ne parlava: da un lato mi sarei frantumato, dall'altro sarei volato. Di frenare, neanche: trenta metri andando ad ottanta sulla ghiaia...tanto varrebbe buttarsi di sotto... 
Per fortuna i ragazzini erano tutti dietro il gregge, ancora giu' sulla scarpata, e sulla strada c'erano solo pecore. Quindi scalai di marcia per mantenere la strada, diedi gas, e la vecchia Jeep Wagoneer del 1973 piombo' in mezzo al gregge come un rapace. Fu un attimo. Mi fermai ad un paio di centinaia di metri oltre, e lentamente tornai indietro. 
Che scena. Quattro pecore giacevano in mezzo alla carreggiata. 
Il resto del gregge, in preda al terrore, si era disperso belando selvaggiamente qua e la'. Uno dei ragazzini stava accoccolato vicino alle pecore che avevo investito. Aveva gli occhi umidi. Lo mandai a chiamare suo padre. In pochi minuti si raccolse una piccola folla di valligiani. 
Quando arrivo' il padrone delle pecore ci sedemmo sul bordo della strada. Ci trovammo d'accordo nel ringraziare Dio che i bambini non erano stati coinvolti, dopodiche' cominciammo a discutere sul compenso. Sapevo che in citta' una pecora da arrostire costava almeno 100 Birr, ma in campagna i prezzi erano inferiori, quindi fui contento quando ci accordammo per 240 Birr per tutte e quattro. 
Pagai, ed uno dei ragazzini venne a dirci che uno degli animali era ancora vivo. Gli occhi di tutti i presenti si illuminarono. Quelle popolazioni sono infatti Cristiani Ortodossi, e seguono i precetti antichi, secondo i quali l'animale, per essere mangiato, deve essere sgozzato da un cristiano. 
Velocemente comparve una lama, una mano sicura verso' il sangue li' sulla strada, e con me al seguito - diventato un ospite, dato che stavo pagando per la festa - andammo alla vicina casa del pastore, dove l'animale fu arrostito e mangiato, innaffiato con birra locale, con grande soddisfazione di tutti, bambini compresi. 
Molto piu' tardi mi rimisi in macchina per proseguire. Come addio, uno dei bambini mi mise in mano un cane di legno, intagliato ovviamente da lui stesso. Delle altre tre pecore - che non poterono essere mangiate perche' uccise dalla macchina e non dalla lama di un cristiano - restavano sulla strada solo batuffoli di lana. Le tracce insanguinate di iena sparivano nella macchia.

Wednesday, 4 February 2009

archivio (46) Rewind: 1992

[Rewind - 1992]

Il prete esiliato.

Apro il cofano. Un'ondata di odore di olio caldo mi investe la faccia. Strizzo gli occhi, lo sguardo si adatta alla penombra che circonda il motore. Vedo l'aria tremolare per il calore intorno alla massa metallica. Bestemmio in siciliano, ripetutamente. Ghirma e' ancora seduto in macchina, si affaccia al finestrino:
"Quello non era inglese"
"No, era la mia lingua"
"Cosa vuol dire?"
"Ti assicuro che non lo vuoi sapere"
"Ah ah ah"
I supporti superiori del radiatore - i due pezzi tubolari di acciaio che lo tengono fermo - si sono spezzati di netto: moncherini metallici che penzolano, il radiatore ancora in piedi sul suo supporto inferiore, ma so che se lo toccassi dondolerebbe. Naturalmente non lo tocco: e' rovente. Vado ad appoggiarmi al finestrino di Ghirma, mi accendo una sigaretta. Lui mi guarda impassibile.
"E' serio?"
"Si puo' riparare, ma dobbiamo aspettare che si raffreddi"
"Li' c'e' un albero, mettiamoci all'ombra"
Guardo nella direzione che mi indica. Un po' piu' avanti, a lato della pista c'e' una acacia umbrellifera, una di quelle rachitiche che si vedono nei documentari di Piero Angela: tronco contorto, fogliame rado di forma appiattita.
Salgo, metto in moto, e piano piano, in prima, mi sposto all'ombra. Ombra per finta, ombra rada. D'altronde l'acacia non ha foglie: ha spine.
Beviamo acqua dalle bottiglie di plastica, calda come piscio. Ci rilassiamo nell'attesa. Ghirma dice:
"Non sapevo neanche che quella strada che abbiamo preso esistesse. Siamo quasi arrivati a Bako, e abbiamo risparmiato due giorni"
"L'ho trovata in un vecchio libro"
La Guida dell'Arica Orientale Italiana 1938 del Touring Club che ho portato con me dall'Italia anni addietro si e' rivelata preziosa ancora una volta: le strade sono uguali, i posti sono gli stessi, le cose descritte non sono cambiate. Questa e' Africa, e il tempo passa lentamente, se una strada esisteva sessanta anni fa c'e' ancora, a meno che non sia nel deserto.
"Bella strada, anche, lungo quella valle, il fiume, gli alberi..."
"Si" dico "Ma abbiamo spaccato i supporti del radiatore sulle pietre del fiume"
"Non ti preoccupare" mi dice Ghirma "hai detto che si puo' aggiustare, no?"
Sorrido alla sua filosofia "Si. Ho quello che mi serve"
"Certo che l' ufficio avrebbe potuto darci una macchina nuova"
"Ah...ehm..ecco...l'ho scelta io..."
"Aha! voi ferengi, voi stranieri e la vostra passione per le cose vecchie!"
"Non e' vecchia!!! come ti permetti!....ha solo dodici anni...non vedi che bella? bianca di fuori, rossa dentro, cruscotto metallico, cabina squadrata, sei cilindri, quattromila diesel, quattro marce, ridotte...e' una meraviglia..." Mi lascio andare a descrivere le bellezze del vecchio LandCruiser, che non si sarebbe rotto se avessi guidato piu' lentamente...ma volevo arrivare prima di notte a Bako, e ho spinto. Bang.

Ghirma mi guarda con gli occhi scuri, le cornee velate di giallo, e ride. Ha cinquant'anni, la pancia, il doppio mento, e' grasso, respira con difficolta'. E' il miglior specialista Ismailita di interventi di emergenza. Lavora per una ONG inglese, come me. Stiamo andando a Bako, capoluogo delle province sudoccidentali di Ismailia. Tre giorni prima il governo Ismailita ha dichiarato "situazione di emergenza" nel sudovest, e ha chiesto l'aiuto delle ONG per rimediare ai danni causati dalla siccita': non piove da tre anni e mezzo in questa parte di Africa. 
E si vede: usciti dalla valle attraverso cui la scorciatoia ci aveva condotti siamo sbucati nel niente. Le montagne di Ismailia sono come una mano aperta appoggiata sulla mappa dell'Africa...la strada ci ha condotti fra due dita della mano fino a giu' nei bassopiani desertici. Stamattina ci siamo lasciati le montagne alle spalle e ci siamo inoltrati nella pianura. Non si muove niente, a parte il tremolio dell'aria calda. Non c'e' una nuvola, il sole e' una presenza opprimente che pesa con la sua brillantezza sulla strada, sulla macchina e sui cespugli polverosi. 

Un paio di ore prima abbiamo passato l'incrocio che sulla mia mappa e' detto "delle quaranta fontane", e ci siamo riimmessi sulla pista principale. Certo, sempre pista e'..l'asfalto e' finito trecento chilometri fa...avevo chiesto a Ghirma "dove sono queste fontane?"
"Quali fontane?"
"Qui sulla mappa dice cosi'"
"E' la traduzione dalla lingua Amende in Italiano?"
"Credo...visto che la mia gente e gli Amende erano alleati nel 1938...ma le fontane dove sono?"
"Non ci sono. Questo non e' territorio Amende, e' terra dei Garra"
"Non capisco"
"In Garrash la frase che in Amende vuol dire "quaranta fontane" significa "quaranta elefanti"
"Ahhhh!!!! ora ci siamo...cartografi e linguaggi.....ma gli elefanti dove sono?"
"Ci saranno stati all'epoca...oggi si sono spinti a sud, dove c'e' ancora acqua tutto l'anno"

Viaggiare con Ghirma e' un piacere: sa quattro lingue a parte l'inglese, ha studiato igiene e medicina preventiva alla John Hopkins, ed e' tornato nella sua terra invece di starsene in America e diventare ricco, ed e' un compagno di viaggio ideale: non si lamenta mai, conosce tutto e tutti, e sembra abbia piacere della mia compagnia.
Faccio un pisolino sul sedile reclinato. Fuori c'e' troppo caldo, almeno in macchina c'e' ombra. E poi fuori e' pieno di spine di acacia e ci sono gli scorpioni. Meglio no. Ghirma mi sveglia dopo un poco: 
"Andiamo?"
Scendiamo, apro il cofano: il motore e' sempre caldo, ma non rovente. Col filo di ferro grosso e pezzi di camera d'aria faccio una legatura ai due lati del radiatore, ricollego i supporti alle staffe. Uso due rametti di acacia infilati nel filo di ferro come torchietti, stringo il tutto, provo, scuoto: non si muove. Controllo i manicotti di gomma dove passa l'acqua: intatti. L'acqua c'e'. Rimetto in moto con un rombo soddisfacente. Sorridiamo, Ghirma e io: possiamo andare. Abbiamo un lavoro da fare.

La fase preliminare di uno studio sull' impatto ambientale della siccita' consiste nel raccogliere dati, nel sentire opinioni, e nell' osservare direttamente la situazione. 
I dati sono ovviamente i piu' importanti. Quali dati? be', potete immaginarlo: precipitazioni, quantita' di pioggia per centimetro quadrato, popolazione totale, altre risorse idriche, risorse alimentari, andamento dei mercati di animali domestici, prezzi, solo per citarne alcuni. In posti come questo, dove di dati certi ce ne sono pochi, e dove l' infrastruttura per raccogliere e conservati dati non c'e proprio o non funziona, l'analisi qualitativa diventa importante: andare a vedere, parlare con la gente, rendersi conto di cosa stia succedendo. 

Uno dei posti dove andare segnato sulla mia lista e' la Missione Cattolica di Denka, sulla strada per Bako, e ormai dovremmo essere vicini. Infatti una stradina si diparte a sinistra, si perde all'orizzonte. Non ci sono cartelli, ma ci sono tracce di automobili, e sulla mia mappa non c'e' altra strada per raggiungere Denka. Dopo una mezz'ora la strada scende in una depressione nella pianura: c'e' un po' di verde stento, qualche mucca, una dozzina di capre, una ventina di capanne, e la missione, recintata di filo spinato (per tenere fuori le vacche, non la gente). Attraversiamo lentamente il villaggio, un paio di facce si sporgono dalle porte per vedere chi e', ma perdono subito interesse. Il caldo e' totale. Lo zabagná sente il motore, apre il cancello, entriamo. Parcheggio davanti alla residenza, una casa bassa in muratura, con veranda circondata da bouganvillea. Si vede che qui c'e' acqua perenne, si sente il ronzare della pompa che tira acqua dal pozzo. 
Con Ghirma ci spolveriamo la polvere di dosso (si fa sempre questa cosa), ed entriamo nella veranda. Sorpresa: una nuovissima mountain bike e' appoggiata al muretto. Sedie e tavolino di vimini, ben tenuti. Si apre la porta a zanzariera, un ragazzo esce e ci viene incontro. E' un ragazzo locale: ha la faccia molto scura., le cicatrici tribali sulle tempie e i labbroni tipici dei dei Garra. Ma com'e' vestito: ha una maglietta "Hard Rock Cafe' - Berlin", pantaloncini da ciclista aderenti fucsia, Nike Air ai piedi. Avra' tredici o quattordici anni. Ci guarda con espressione antipatica.
"Che volete"
"Parlare con Padre Schmidt. C'e'?"
"E' via"
"Quando tornera'?"
"Non lo so"
Con Ghirma ci guardiamo in faccia. Questo non e' modo di fare degli Africani, e neanche dei missionari.
"Lo aspetteremo"
Ci sediamo sulla veranda. Il ragazzo si gira ancheggiando, prende la mountain bike e sparisce dentro la casa.
Con Ghirma conversiamo in Amende. Me la cavo abbastanza dopo tutti questi anni.
"Pessima accoglienza" dico.
"Padre Schmidt non lo conosco" mi dice. "Anni fa era il segretario del Cardinale, sembrava avviato ad una carriera nella diplomazia della tua chiesa"
"Non mi insultare, Ghirma, ti ho detto che non e' la mia chiesa. E poi?"
"E poi lascio' la capitale e non se ne seppe piu' niente per molto tempo. Qualche tempo fa seppi che era qui come missionario"
"Mah. Aspettiamo"
Il sole si abbassa, il pomeriggio avanza. Una donna antica e grinzosa si affaccia da una delle baracche della missione, ci guarda. Dopo pochi minuti ci porta un vassoio con due bicchieri di te' dolce. Le sorrido, la ringrazio in Garrash (non so dire altro). Le sue grinze scompaiono, gli occhi le luccicano per un istante, si inchina, scappa via.
Dopo un'ora arriva una macchina. Parcheggia accanto alla nostra. Ne scende un omaccione vestito da cacciatore bianco, sahariana e pantaloncini al ginocchio. Avanza pesantemente verso la casa dove siamo noi, entra in veranda. Ci alziamo.
"Padre Schmidt, buona sera. Mi chiamo KT, lavoro per la ONG tale. Questo e' il mio collega, Dr. Ghirma"
"Piacere. Non vi aspettavo"
"Siamo di passaggio, andiamo a Bako per investigare l'emergenza"
"Emergenza? qui e' sempre emergenza..."
Improvvisamente si apre la porta interna, il ragazzo e' sulla soglia. Non dice niente, gli trema leggermente il labbro. Padre Schmidt lo guarda in silenzio per un istante, poi gli abbaia qualcosa in Garrash. Il ragazzo apre la bocca, la richiude. Si volta e scompare dentro la casa, la casa che e' ovviamente quella di Padre Schmidt.
Padre Schmidt cambia tono, si rivolge a noi bruscamente.
"Invece di spendere i soldi per le emergenze che non esistono dovreste chiedere a me che vivo qui da anni di cosa ci sia bisogno"
Assumo un tono ragionevole. Ghirma, furbo, lascia la discussione ai ferengi.
"Beh, e' per questo che siamo qui, padre. Vorremmo la sua opinione sulla situazione"
"Allora dite al vostro capo che ho bisogno di soldi per costruire chiese"
"Chiese?" chiedo, leggermente sorpreso.
"Certo, chiese!" urla lui "A mezza giornata da qui si sono installati i Protestanti americani: hanno una clinica prefabbricata, energia solare e hanno costruito una grande chiesa: i Garra ci vanno a frotte!" 
"Ci andranno per la clinica" dico io
"Certo! Ma i protestanti li curano solo se i Garra si convertono! E a quelli che si convertono danno cibo e coperte e medicine!"
"Padre...lei capisce che noi non siamo la Caritas...non possiamo spendere i soldi dei nostri sostenitori per costruire chiese"
Mi guarda furibondo, occhi porcini, faccia paonazza, capelli color carota grigi per la polvere. Io continuo, imperterrito:
"Ma per pozzi, per irrigazione, per medicine, per scuole, per derrate alimentari se c'e' un'emergenza...tutto questo e altro si puo' fare"
"La fede! cosa sono tutte queste cose se manca la fede! A che servono i beni della terra se lo spirito e' deviato dagli eretici protestanti! Chiese! Ne ho costruite dieci in tutti questi anni e non bastano! Le chiese, la casa di Dio, non beni terreni. I Garra hanno bisogno di fede...sono come bambini innocenti..."
Ghirma alza di scatto la testa. Non sorride piu'.
"Come quello che ti tieni in casa, Padre Schmidt? con i vestiti alla moda e le scarpe costose che nessun altro ha? E' questa la fede di cui parli, Padre Schmidt?"
Il prete boccheggia, ansima. Ghirma continua: "Che esempio dai a questo villaggio ed al tuo gregge, Padre Schmidt? La mia nazione non ha bisogno di gente come te"
Ghirma e' calmo, ma furioso. Si volta e lascia la veranda. 
"Padre Schmidt, grazie per il te'" dico.
Gli passo accanto per andarmene. Odora di sudore, puzza di sudore. Carne grassa e pelle rossa. Mi fa leggermente schifo. Monto in macchina, dove Ghirma e' gia' seduto, metto in moto, faccio retromarcia sterzando al limite, sollevo nugoli di polvere. Andiamo via da questo posto malato.

archivio (45) Fast Forward: 1996

[fast forward: 1996]

Il deserto dei Karayu e' caldo e secco. Tutto e' giallo, la terra ed il cielo. Il Toyota LandCruiser e' nuovo, bianco, e ronza come un alveare infuriato lungo la pista per Mokale. Finestrini aperti, Pietro mi passa la canna. Guido col gomito sul finestrino spalancato, fazzoletto sulla bocca, occhiali.
"Dimmi di nuovo perche' stiamo andando a Mokale"
Pietro e' stravaccato sul sedile, scarpa sul cruscotto, braccio penzolante fuori. Siamo in macchina da due giorni.
"Ti ricordi Don Baldo?"
"Quello per cui lavoravi tu anni fa? certo. Non voleva che venissimo a trovarti..." Scuoto la testa. 
"Ha mandato due volontari nuovi dai preti di Mokale per fare un progetto di irrigazione"
"E tu cosa c'entri?"
"Mokale e' nella diocesi di Monsignore"
"Ho capito. Andiamo a dare un'occhiata a questo progetto di Don Baldo"
"Esatto" 
Mokale e' un buco polveroso di paese alla frontiera fra Ismailia a le tribu' nomadi del sudest. Un centinaio di case, una piazza per il mercato, un benzinaio e quattro bar di zoccole con stanze sul retro.

Rallento molto prima di entrare in paese. Anche senza la trazione integrale inserita il LandCruiser alza piu' polvere di cinquanta cammelli, non vogliamo farci notare...in vista della missione rallento, giro in una traversa, mi fermo fra due baracche di fango. Un pugno di galline scheletriche starnazza via. Apro lo sportello, scendo. Ahhhhh...stiracchio le gambe.
Pietro si siede al mio posto. Mi passa le sigarette e l'accendino.
"A dopo"
"ti ho salutato"
Riparte, va dai preti. Io vado in paese.
Passo la mattinata girando i quattro bar, poi al mercato, una piazza polverosa dove quando arrivano si accucciano a terra ed aprono i sacchi, poi vado a parlare con il direttore della scuola elementare del governo, e per finire vado fare una chiacchierata con il capo della polizia. Me lo porto a pranzo: zil zil tips, pezzi di filetto arrostito sul fuoco con peperoncino, cipolle e salsa piccante di awasé, la "polvere del diavolo". Il tipo della polizia lo conosco, qualche anno addietro abbiamo avuto a che fare in un altro posto. Il cameriere gli riempie il bicchiere di birra locale, e a me pure.

Per finire vado al mercato dei cammelli, a parlare coi Karayu. Qui devo stare attento, I Karayu sono nomadi, non riconoscono alcuna autorita' tranne i loro capi tribali. E come se non bastasse sono tutti molto piu' alti di me, ed ognuno ha un coltellaccio di mezzo metro alla cintura...trovo gli anziani sotto un albero, a masticare chat, i kalashnikov appoggiati al tronco. 
Aspetto che mi notino. Mi accendo una sigaretta, in disparte. Finalmente uno di loro gira la testa nella mia direzione, con un dito mi fa cenno. Mi siedo sotto l'albero, mi presento, offro sigarette. Voglio sapere dell'acqua per i cammelli, dei pozzi stagionali e dei loro movimenti. L'anziano mi parla a lungo, in un misto di italiano ed inglese ed Ismailita. 

Piu' tardi aspetto Pietro seduto dietro la baracca del benzinaio, fumando. Tanto il benzinaio ha solo fusti di diesel, e quello non si accende neppure se ci butti la sigaretta dentro.
Sento arrivare il LandCruiser, mi alzo, mi spolvero i pantaloni a manate. Salgo in macchina, andiamo.

"Allora?" chiedo
"Padre Geremia sta bene, ti manda i saluti"
"Mangiato bene?"
"Altroche'. Aveva il vino novello dall' Italia"
"Di quest'anno? Che culo maledetto che hai"
"sai la chiesa.."
"E io che ho mangiato uno zil zil piu' duro della suola..."
"La prossima volta ci parli tu con i preti e i volontari".
"Scordatelo. Preferisco parlare con le zoccole" 
"Don Baldo ha chiesto un finanziamento di emergenza all'ufficio Emergenze della Commissione Europea per combattere la siccita' qui a Mokale e provincia. 150.000 euro per sei mesi"
"Per fare cosa?"
"I volontari mi hanno spiegato il loro piano: scavare pozzi per l'acqua potabile ed insegnare ai Karayu come risparmiare l'acqua, usando la struttura della scuola elementare per i corsi"
"Quanti pozzi?"
"Quattro"
"Secondo il capo della security un pozzo qui costa 8.000 euro. Sono andato al mercato: la pompa elettrica la danno per 3.000, uno scavapozzi con esperienza prende 2 euro al giorno"
"Quindi sarebbero 32,000"
"Il Direttore della scuola mi ha detto che gli hanno chiesto la scuola per una mattinata, gli hanno offerto venti euro per usare la classe e cinquanta per la traduzione ai Karayu"
"Una mattinata?...Don Baldo non si smentisce.."
"I Karayu quest'anno se lo aspettavano che non sarebbe piovuto. Tre mesi fa hanno spostato tutte le cammelle ed i cammellini nella valle del Beyb, a cinque giorni da qui, dove c'e' acqua ed erba. Sono venuti in pochi, solo per vendere capre e comprare il te'". Non sanno niente del progetto di insegnargli come usare l'acqua"
"Quindi 32.000, piu' settanta alla scuola...mettiamoci il dieci per cento di amministrazione per l'ufficio di Don Baldo in Italia.."
"Il fondo emergenze della Comunita' gli dara massimo 8% per amministrazione"
"Con il costo dei volontari, sei mesi di progetto...se gli costa 50.000 e' tanto".
"E lui ha chiesto 150.000"
"Non si smentisce mai"
"Col cazzo che Monsignore gli dara' il permesso di lavorare nella sua diocesi"
"Il tuo Monsignore ha le palle, peccato che sia un monaco"
"Questo progetto e' bello e affondato"
"Sai cosa ha detto il padrone del bar? sono anni che ogni tanto arriva qualcuno e scava un pozzo...tempo sei mesi e' pieno di sabbia"
"Missionari e cooperanti del cazzo"
"Fai una canna, va"
La polvere sembra una coda gialla dietro il LandCruiser. Andiamo a casa

archivio (44) La monaca portasfortuna

"E' tradizione. Il re di Ismailia ed i nobili usavano tenere grandi bachetti per i loro seguaci, e c'era un protocollo: Il re e la sua famiglia mangiavano per primi dai grandi vassoi di portata, poi i nobili e la corte, i maggiorenti, i loro servi e cosi' via...quello che avanzava nei vassoi veniva portato alla fine fuori e dato ai mendicanti. Le suore, ma anche i padri non fanno altro che perpetuare la tradizione"
Ci dirigiamo fuori di citta'. C'e' un posto di blocco. Soldati Ismailiti con fucili automatici russi a tracolla, una sbarra di legno messa di traverso in mezzo alla strada. Pietro rallenta, si ferma, si sporge dal finestrino. 

[traduttore automatico=on]
"Ehi Sergente! Dio ti guardi. Andiamo a Bendia"
"Straniero! che macchina carica che hai! Fammi vedere."
Il tipo gira attorno alla macchina, appoggia il naso ai vetri per guardare dentro.
"A cosa ti serve il filo spinato?"
"Per non fare entrare le vacche nel vivaio"
"Ah! Ma e' tardi per andare ora, fra poco sara' buio"
"Vuoi una Marlboro, sergente?"
"Ah! sigarette americane!"
[traduttore=off]

I soldati si affollano attorno al finestrino per partecipare alla distribuzione. Pietro lascia il pacchetto al sergente. La sbarra si alza, andiamo.

Il convento dei frati e' fuori citta'. Una traversa sterrata conduce ad un altro muro. Stessa scena, ma questa volta invece di aprire il cancello, l'ometto di turno esce con in mano il sacchettino della posta e lo da' a Pietro.
"Sembra che non ci sia nessuno" dico.
"Ci sono, ci sono. Sono a cena"
Al volontario friulano si illuminano gli occhi.
"Le cene dei padri! Una volta ebbi occasione di cenare qui: antipasti, pasta, due secondi, pane caldo, vino del mio paese..."
"Il vino del tuo paese lo mandano qui perche' nessuno lo vuole. Taci"
"Non ti permettere terun! Il vino friulano..."
Per i successivi quindici minuti c'e' l'inferno in macchina.

La strada e' asfaltata, e si snoda sull'altopiano verso ovest. Sterminati campi di sorgo rosso si stendono fino all'orizzonte. Di fronte, la linea blu di un gradino piu' alto dell'altopiano si scurisce mentre il sole gli si nasconde dietro.
La macchina sbanda, sculetta. 
"Abbiamo bucato"
Ci fermiamo a cambiare la gomma. I ragazzi sono esperti, si vede che succede spesso. Uno tira fuori la chiave a croce e allenta i bulloni, l'altro infila il martinetto idraulico sotto l'asse e in pochi minuti il lavoro e' fatto.
Seguo Pietro, che si e' allontanato per pisciare. Ma io lo conosco...lo raggiungo e mi passa la canna. Mentre respiro il fumo resinoso e aromatico mi dice:
"te lo avevo detto che Suor Clara porta sfortuna"
"'O caca, scemo"
"Ah si? e com'e' che abbiamo bucato la gomma posteriore sinistra, giusto sotto di lei? la gomma e' nuova..."
Ripartiamo. Fino a questo momento la strada era deserta. Capanne di fango e paglia si intravedono in lontananza, perse fra i campi. Improvvisamente Pietro bestemmia (poi si gira e guarda la suora con espressione contrita), sterza, frena e si butta fuori strada. Non faccio in tempo a chiedere che dalla curva di fronte a noi, come un mostro preistorico esce un gigantesco autoarticolato largo quanto la carreggiata, scarico. Con un rombo ed una nuvola di polvere ci passa accanto e scompare verso la citta. Stiamo fermi.
"Se ce n'e' uno ce ne saranno altri"
Infatti. Almeno quindici, in convoglio, ci passano accanto senza rallentare, facendo tremare il LandRover con lo spostamento d'aria (avete presente il LandRover? ci vuole un po' a farlo tremare...).
"Il convoglio settimanale aiuti alimentari che torna dal Ghimbi"
"Dicci di questi aiuti alimentari"
"Nella regione del Ghimbi combattono da dieci anni, il governo contro i ribelli marxisti i quali vogliono l'indipendenza..."
"scusa, aspetta, ma non e' marxista il governo?"
"Si ma non c'entra, capisci, qui il criterio fondamentale non e' l'ideologia ma il gruppo etnico: i Ghimbini sono diversi dagli Amendi che sono al potere in Ismailia, e vogliono l'indipendenza. I sovietici armano il governo e l'occidente arma i Ghimbini"
"Ma non hai appena detto che i marxisti sono i Ghimbini?"
"Si ma non e' rilevante: combattono il governo filo-sovietico marxista, quindi per l'occidente va bene"
"E gli aiuti? quelli erano camion del governo, no?"
"Gli aiuti glieli diamo noi al governo"
"Noi chi?"
"Noi...l'occidente, l'America, l'Italia, la CEE..."
"Cioe' le armi no ma gli aiuti alimentari si"
"Esatto. E loro usano una parte degli aiuti alimentari per nutrire l'esercito, ed il resto per nutrire le popolazioni del Ghimbi"
"??..ma non sono i loro nemici?"
"Ah, ma sai com'e'con la guerriglia: come per i partigiani, se la popolazione locale non ti appoggia non duri niente..quindi il governo ha spostato centinaia di migliaia di persone dalle montagne del Ghimbi giu' in pianura col pretesto di facilitare la distribuzione del cibo, in realta' per togliere il supporto popolare ai ribelli". 
"E noi -l'occidente cioe' - non facciamo niente?"
"E cosa dovremmo fare? sono cazzi interni degli Ismaeliti...naturalmente tutta questa gente che hanno spostato vivevano tutti di agricoltura, una volta allontanati dai loro campi non hanno piu'niente, e quel che e' peggio il raccolto abbandonato e' andato perso..."
"Quindi tu stai dicendo che noi stiamo aiutando il governo a nutrire gente che essi stessi hanno affamato..."
"Bravo KT! si vede che frequentare mia sorella ti fa bene..."
Anna dice:
"Cosa c'entra Don Baldo e voi in tutto questo?"
"Ah, noi non siamo direttamente coinvolti nella distribuzione degli aiuti alimentari...noi facciamo progetti di sviluppo agricoli a lungo termine, per esempio il mio vivaio per la riforestazione...domani vi ci portero'..."

Il sole lentamente svanisce dietro l'altipiano, il cielo scurisce. Passiamo da due paesini tipo West, due file di baracche di legno e fango con tetti fatti di ferro ondulato ai due lati della strada. Uomini e donne avvolti in coperte di cotone bianco stanno seduti su sggiole di paglia lungo la strada. Lampadine nude appese dentro le baracche mandano una fioca luce, abbastanza da rendere l'oscurita' tetra. In entrambi i paesini ci fermiamo alla missione, facilmente riconoscibile per la chiesetta accanto e per essere costruita in muratura. Pietro da' le lettere delle suore allo zabagná, il guardiano notturno, anch'esso avvolto in strati di cotone bianco, con bastone e lampada, e proseguiamo.

Dieci minuti prima di arrivare a Bendia, ormai notte fonda, buchiamo di nuovo. Stessa ruota, quella sotto sorella Clara.
"Ora capisco perche' vai in giro con due ruote di scorta sul tetto" dico a Pietro mentre alziamo la macchina.
"Speriamo bene, manca poco ormai."
La strada e' buia, non c'e' illuminazione. Un paio di fioche luci lontane indicano l'esistenza di case, ma a parte queste e'notte. Notte africana, notte di montagna. 
Alzo la testa, guardo il cielo sereno. Indescrivibile, milioni di stelle sul velluto nero della notte. Mi perdo a contemplarle...
"Stringi!!
"Scusa...guardavo il cielo"
"Bello vero? non ci si abitua mai..."
Ripartiamo e dopo pochi minuti arriviamo a Bendía. Non si vede niente, giriamo in una traversa, rombando fra le case, e quando arriviamo davanti ad un cancellaccio di ferro questo si sta gia' aprendo. Entriamo, parcheggiamo, Pietro spegne il motore. Il silenzio e' squarciato dall'abbaiare dei cani, compreso un cosaccio nero incatenato ad un albero vicino alla porta d'ingresso.
Una baracca di legno, quattro stanze e un soggiorno, una cucina. 
Pietro organizza: Anna, vai a sederti. I bagagli li porta dentro lo zabagná. KT aiuta Giancarlo a riparare le ruote, ci servono domani mattina, Giuseppe vai a vedere cosa c'e' da mangiare, io vado a controllare i cavalli" 

archivio (43) Il bugiardo II

(Il bugiardo - 2)
Facciamo passare un altro mese, giusto il tempo per organizzarmi le ferie e per vedere se Pietro si fa sentire. Niente. Un pomeriggio vado a casa di Pietro. Sua sorella, chiamiamola Anna, mi dice:
"Telefoniamo a Don Baldo, vediamo se ci puo' facilitare il viaggio"
Chiamo io.
"Pronto, organizzazione di volontariato cattolica X"
"Buongiorno, mi chiamo KT, sono un amico di Pietro, volontario con voi in Ismailia. Potrei parlare con Don Baldo per favore?"
"Pronto!"
"Don Baldo, buongiorno. Sono un amico di Pietro e vorrei approfittare delle vacanze per andare a trovarlo"
"Ah. E cosa vuoi da noi?"
"Mah, non so. Pensavo che magari potreste indicarmi il modo migliore per raggiungere il villaggio di Pietro una volta che saro' arrivato in Ismailia, non so, facilitare la visita in qualche modo"
"Ma caro ragazzo, sei sicuro? Sai c'e' la guerra laggiu', non e' opportuno viaggiare per turismo"
"Don Baldo, mi prenderei ogni responsabilita', coprirei i miei costi, non vorrei certo pesare sull'organizzazione..."
"Mi dispiace tanto, ma te lo sconsiglio. Non posso certamente prendere questa responsabilita'"
"Oh. Va bene lo stesso, grazie Don Baldo"
"Prego" click.

Alzo gli occhi dall'apparecchio. Anna mi sta guardando.
"Hai sentito?"
"Ho capito"
Neanche un minuto e suona il telefono. E' Don Baldo.
"La sorella di Pietro? Piacere, signorina. Senta mi ha chiamato un certo KT, dice di essere amico di Pietro e che vorrebbe andare a trovarlo"
"Si, sono al corrente. Ha detto a mia madre che vi avrebbe chiamato per informarsi"
"Signorina, deve dissuaderlo dall'andarci. Pietro e' al sicuro, Dio protegge i miei ragazzi, ma le strade sono pericolose, la guerra civile, la carestia, i banditi...conto su di lei"
"Certo, certo, Don Baldo. Senz'altro. Parlero' a KT"

Facciamo i biglietti per Ismailia lo stesso giorno. La sera stessa prendo un giorno di ferie, intasco i nostri passaporti, inforco la mia Guzzi California II nera e cromo e mi fiondo a Roma per i visti d'ingresso. Ottocento chilometri, sette ore. La mattina dopo al consolato sono deliziati. Non molti turisti vanno a Ismailia. I visti sono pronti in giornata. L'autostrada del sole e' un nastro dei Rolling Stones che si srotola sotto di me. 

Dopo una settimana partiamo, senza potere avvertire Pietro.
Atterriamo nella capitale di Ismailia di prima mattina. Sull'aereo un gruppo di ingegneri yugoslavi, due suore e molti Ismailiti.

[nota] Ismailia esiste solo in letteratura, nei libri di Evelyn Waugh. Ma la nazione esiste davvero. Ho cambiato i nomi ai posti, alle persone e mischiero' qualche data per non correre il rischio che alcuno venga riconosciuto: molti che nominero' sono ancora li [fine nota]

Nessuno ci aspetta, nessuno ci conosce. Anna e' alta quanto me, bionda grano con gli occhi azzurri. Siciliana purissima come tutta la sua famiglia da novecento anni. Normanni, arrivati in Sicilia con Ruggero d'Altavilla nel 1100 per buttare fuori gli Arabi. Pietro e' uguale a lei.
Ma non siamo del tutto impreparati: ho con me un libro. Guida all'Africa Orientale Italiana Edito dal Touring Club, 1938. Certo, qualche cosa sara' cambiata, penso, ma non tutto. Siamo in Africa. Inoltre, non esistono guide recenti per Ismailia. Il paese e' sotto dittatura militare da quindici anni, Il Partito Dei Lavoratori Ismailiti controlla tutto. L'aeroporto e' tappezzato di murales in stile messicano inneggianti alla lotta del proletariato contro il capitalismo, ritratti di Lenin e Marx ovunque. Mi avvicino ad uno. Dipinto crudemente su un pezzo di ferro, copia del ritratto con barbona familiare a tutti noi (cioe', quasi tutti noi...) Il vecchio Karl e' stranamente giallo in faccia, sembra che abbia l'epatite.....evidentemente fare la pelle bianca deve essere venuto difficile all'artista Usciamo dall'aeroporto, troviamo un taxi. Ci facciamo portare in un alberghetto amico suo. Povero e spoglio, ma pulito, come del resto si rivelera' tutto il paese.
L'indomani andiamo all'ambasciata. La signorina del consolato e' italiana, parla con accento toscano, ma in faccia e' africana. Le spieghiamo dove vogliamo andare e perche'. 
"Ah, ma non c'e' bisogno. Pietro e gli altri volontari cattolici (con Anna ci scambiamo un'occhiata: 'cattolici'?) scendono in citta' ogni quattro settimane per prendere il gas e le provviste. Dovrebbero arrivare fra due giorni. Di solito stanno all'hotel di Joseph".
Ringraziamo, ci spostiamo da Joseph. C'e' un bar con la macchina espresso del 1960, tutta cromata, stanze pulite e personale gentile. Tutti ci guardano tutto il tempo, siamo gli unici stranieri in giro....e abbiamo preso due stanze separate. Gli dobbiamo sembrare strani per forza...

Venerdi' sera siamo seduti al bar, bevendo acqua minerale. Aspettiamo. Siamo in un angolo buio. Poca gente, Ismaeliti a gruppetti di due o tre e qualche consigliere militare sovietico bevono Johnnie Walker etichetta rossa. Si aprono le porte ed entrano tre bianchi, scarponi impolverati, fazzoletti al collo e giubbotti di pelle. Ismailia e' paese di montagna, di notte fa fresco. Uno loro e' Pietro. Non si guarda neanche intorno, va direttamente al banco, gira da dietro, da' uno scappellotto amichevole al barista che sorride, e in italiano dice:
"spostati tu, che il caffe' non lo sai fare!"
E procede a farsi il caffe' da solo.
Anna accanto a me alza la voce e dice:
"Garcooon, due caffe' ristretti per favore"
Pietro sembra colpito da una fucilata. Barcolla, diventa immobile. Si gira verso la voce. Sua sorella si alza, gli va incontro, con me dietro.
Vi risparmio gli abbracci e i baci e tutto.
Piu' tardi siamo seduti tutti in una camera, parliamo. Quasi un anno da raccontarci.
"Don Baldo e' uno stronzo" dice Pietro. Gli altri due volontari, un friulano uguale sputato a Giancarlo Giannini e un torinese nuovo arrivato poche settimane prima di noi annuiscono in silenzio.
"Prende un sacco di soldi dal governo per fare progetti di sviluppo e a noi ci arrivera' forse la meta'"
"Ma la posta?"
"Quale posta?" urla Pietro. Io SCRIVO OGNI MESE E VOI STRONZI NON MI RISPONDETE MAI!
Sua sorella lo guarda fisso, senza parlare. Lui si calma di colpo.
"Guarda che non avevamo notizie da mesi. Perche' pensi che siamo venuti?"
Pietro ci pensa su, si rabbuia in volto.
"Quel maledetto"
"Cosa?"
"Su al paese non c'e' l'ufficio postale. Le lettere le diamo ai frati della missione nel paese vicino per postarle qui in citta'. Loro si possono muovere, non come noi che siamo confinati".
"E allora la guerra, i banditi..."
"Ma quale guerra! la guerra e' a quattro giorni di macchina da qui, e non ne sappiamo niente, non l'abbiamo mai vista"
Rinunciamo a capire, tiriamo tardi parlando di amici e di casa. L'indomani ci sara' da andare in giro a fare spese.

Passiamo il sabato a comprare rotoli di filo spinato per proteggere la riforestazione dalle vacche. Giriamo con una vecchia Land Rover bianca e blu dell'organizzazione. Sul cofano, dipinto a mano, un asso di bastoni delle carte napoletane.
"Molto cattolico, l'asso di mazze" dico.
"Ah, era gia' cosi' quando ce l'hanno data. Il disegno l'ha fatto uno che era qui due anni fa" 
Poi le bombole del gas, cibo, altre provviste. 
Quando abbiamo tutto Pietro dice:
"Adesso la posta"
Andiamo prima dalle suore. Stanno su in collina. Un alto muro protegge e ripara. Pietro si ferma davanti al cancello, suona. Un ometto si affaccia alla porticina, guarda, sparisce di nuovo. Il cancello si apre lentamente. Pietro ingrana la marcia e si avventa sul vialetto. Anna, seduta davanti, dice:
"Guarda che roba"
Il giardino ai due lati del vialetto e' un immenso rosaio. Rose rosse, gialle e bianche dal lungo stelo. Ismailiti si aggirano fra i filari, prunano, annaffiano, giardineggiano.
Parcheggiamo davanti all'ingresso della villa. Pietro si volta e mi dice:
"Fai parlare me e non contraddirmi"
Gli strizzo l'occhio.
Una suora bianca col velo celeste si affaccia sorridente.
"Pietro! buongiorno! Venite, venite, il caffe' e' pronto"
Scendiamo, ci guardiamo attorno. Che pace. decine di uccelli svolazzano fra le rose e gli alberi del giardino, non si sente la strada. 
Presentazioni.
"Sorella Gentilina, questa e' mia sorella...mio cugino...il nostro nuovo volontario Giancarlo"
"Venite, entrate, il caffe' e' pronto"
Entriamo. Parquet lucidissimo a terra, arredamento semplice e moderno, un lungo corridoio ci porta fino ad un largo soggiorno, poltrone e divanetti di pelle anni sessanta come nuovi, tavolini di legno pregiato. Ai muri, marie e san giuseppi.
Arrivano altre due suore, tutte italiane. Sono qui da anni ed anni, hanno cliniche e scuole sparse per il paese, questa e' la 'casa' principale. La superiora non c'e', e' in giro. Ma Suor Gentilina ha in mano la situazione. Una serva Ismailita porta il vassoio col caffe, un'altra scatole di biscotti. Tazzine di porcellana, cucchiaini da servizio, il caffe' fa schifo, pare acqua dei piatti. Beviamo lo stesso, anche se Anna ha la faccia di quella che sta per sentirsi male.
'Suor Gentilina, non possiamo trattenerci, dobbiamo ancora passare dai Padri"
"Pietro, c'e' suor Clara che deve andare su al villaggio. Glielo dareste un passaggio?"
Pietro annuisce, sorride. Immediatamente un fruscio di attivita': chi corre di qui e chi corre di la'. Siamo soli per qualche minuto.
Pietro ha i denti stretti.
"Ma sucaminchiadieva" 
"Cosa? il posto in macchina l'abbiamo"
"Suor Clara porta sfortuna"
"Ma dai"
"Porta sfortuna ti dico! lo sanno tutti!"
Suor Clara e' poco piu' di una novizia, Ismailita. Piccola, minuta, si siede nell'angolo dietro della macchina, rosario in mano e mantello sull'abito. Non dice niente.
Prima di andarcene Suor Gentilina da' a Pietro due pacchetti di lettere legate con lo spago.
"Per le missioni di Barro e Waka, ti vengono per strada"
"Suor Gentilina, sa che molte delle nostre lettere che avevamo dato ai Padri non sono mai arrivate?"
Lei alza lo sguardo al di sopra degli occhiali, occhi di ghiaccio. Pietro le si avvicina.
"Lettere tue?" Pietro annuisce.
"Tu lo sai, vero, che Don Baldo contribuisce alle spese della missione dei Padri"
"Ah. Non lo sapevo. Grazie".
"Buon viaggio, Pietro. E' stato un piacere conoscere tua sorella e vostro cugino
Come al solito. Pensano di avere capito, e sbagliano lo stesso. Ma cos'e', non si puo' essere amici con una donna?
Andiamo. Pietro si avventa giu' per il vialetto, il cancello fa appena in tempo ad aprirsi, siamo per strada rombando. Fuori, lungo i muri, fra i cespugli, un sacco di gente. Poveri, vestiti di stracci, bambini cenciosi al collo, amputati in stampelle di legno senza protesi, tutti seduti all'ombra.
"Cosa fanno qui questa gente?"
"Le suore distribuiscono gli avanzi del pranzo il sabato e la domenica.Questa e' la fila"
"Gli avanzi del pranzo?"

(continua)

archivio (42) Il bugiardo I

1983: Il bugiardo

Don Baldo e' prete, anche se officia poco. E' un personaggio importante in Italia: dirige una importante ONG di ispirazione ed espirazione cattolica. Ed e' anche un bugiardo. Mente per convenienza, per calcolo, per furbizia. Insomma, mente per soldi.

Sono anni grassi per le ONG, gli anni ottanta: la DC e il PSI si sono infatti divisi i paesi poveri in "zone d'influenza", e una legge apposita (una specie di manuale cencelli degli aiuti) ha reso disponibili grandi quantita' di soldi. Soldi nostri cioe', soldi di chi paga le tasse. 
Le ONG di ispirazione democristiana lavoreranno in certi paesi africani, mentre quelle laiche e socialiste faranno progetti altrove. Tutti sono contenti: I soldi che lo stato destina alla cooperazione tramite ONG sono proporzionatamente divisi, e - quel che e' meglio - sono praticamente a fondo perduto: non si devono restituire, ne' ci sono controlli seri su come vengano usati. La ONG di Don Baldo e' fra quelle piu' quotate a Piazza del Gesu', Don Baldo ha il santo protettore a Montecitorio. 

Nel 1983 io non so quasi niente di tutte queste cose. Ho ventitre' anni, vivo gia' da solo, ho un lavoro, una moto e una ragazza (notare l'ordine), gioco a basket la domenica e leggo libri o vado al mare il resto del tempo. Ma ho degli amici a cui sono affezionato. Uno di questi, chiamiamolo Pietro, si laurea in agraria e sceglie di fare il servizio civile invece del militare. Si iscrive alle liste, lo assegnano (o forse sceglie, non ricordo piu') alla ONG diretta da Don Baldo. Contratto da volontario, cento dollari al mese per vivere, spese pagate, due anni di fila in Africa.

La sera prima della partenza, tutti gli amici riuniti nella casa al mare. Francesca, capelli rossi e occhi verdi da strega gli fa l'oroscopo cinese, i-king: getta i bastoncini sul tavolo, consulta il Libro dei Mutamenti. "Cambiamento duraturo al di la' del mare" e' la sua interpretazione. 
Pietro parte. Don Baldo lo manda subito ad un corso di preparazione teorica sul volontariato. In Germania. Pietro obietta: "il tedesco non lo capisco"
"non ti preoccupare, il corso e' in inglese, e' organizzato dalla CEE"
Pietro va. Il corso e' in tedesco, la CEE non lo organizza ma paga organizzatori e ONG partecipanti. Pietro scopre che Don Baldo manda tutti i suoi volontari a quello stesso corso. Scopre anche che ci sono corsi in altre lingue in altri posti, ma che questo paga di piu' per ogni volontario e costa di meno come alloggio. 
Pietro tutto sommato e' italiano: gli sembra normale. Tenta di non dormire, e quando torna dal corso Don Baldo lo mette sull'aereo per Ismailia. Dieci ore. Don Baldo telefona alla madre di Pietro: 
"E' arrivato ad Ismailia, grazie a Dio, si, si sta benissimo, telefonera' presto dal nostro ufficio"

Pietro telefona dopo quattro settimane: Non c'e' il telefono nel villaggio di Ismailia dove vive con altri due volontari in una baracca di legno: deve guidare mezza giornata per arrivare al telefono pubblico piu' vicino, di quelli con la manovella da far girare mentre si parla. La guerra civile imperversa in Ismailia: Don Baldo proibisce ai suoi volontari di guidare fuori dal paese, quindi il telefono e' irraggiungibile. Ma sta bene, a parte un piccolo attacco di dissenteria: e' contento, sta gia' lavorando ad un progetto di riforestazione. Sua madre si preoccupa:
"Dissenteria? cosa ha detto il dottore?"
"Ehm..non c'e' il dottore qui. Ma sto bene, abbiamo scatole intere di Bimixin"
"Il Bimixin e' solo un tappo, mica ti cura la diarrea"
"Bevo acqua e sale mamma, non preoccuparti"

Preoccupatissima, la madre di Pietro chiama Don Baldo.
"Signora, per l'amor del cielo. Abbiamo dottori italiani abilissimi in Ismailia. Le assicuro che Pietro e' in ottime mani".

Passa un mese, arriva finalmente una lettera di Pietro. La dissenteria gli e' passata, un medico dell'esercito Ismailiano la cui compagnia e' passata dal villaggio per reclutare fra i ragazzi locali gli ha venduto degli antibiotici. Ora sta imparando la lingua, lavora. Hanno visto la cometa di Halley, che dall'Italia non e' stata visibile. 
Uno degli altri due altri volontari e' stato richiamato in Italia da Don Baldo perche' si era innamorato di una ragazza locale, voleva sposarla. OK, la ragazza era anlfabeta e faceva la cameriera al bar locale in cambio di vitto ed una stanza col letto sul retro, ma pare che fosse buona e bella. Il volontario, diciotto anni di montanaro della provincia di Sondrio e' ripartito piangendo. La ragazza e' rimasta a lavorare al bar. Qualche mese dopo, quando il ventre comincera' a notarsi, il padrone la buttera' fuori.

Dopo sei mesi Pietro scrive ancora. Sta bene, si e' comprato un cavallo, gira per la riforestazione a cavallo, risparmia benzina e arriva dove non si guida. Inoltre gli Ismailiti, ardenti cavalieri, lo rispettano di piu', gli offrono da bere. Poi non scrive piu'. Don Baldo al telefono assicura che va tutto bene, la guerra civile ha interrotto la posta.
"Ma allora sono in zona di guerra? non dovrebbero essere evacuati?"
"No no, e' una guerriglia signora mia, scaramucce, a piu' di cinquecento chilometri, loro non hanno problemi, Dio li guarda".
Madre e sorella di Pietro si guardano in faccia. E la posta allora chi l'ha interrotta?

Con la sorella di Pietro camminiamo assieme da quando avevamo quindici anni, da quando la vidi per la prima volta e le scrissi una lettera d'amore. Lei la lesse, due dita sulle labbra a nascondere il sorriso, poi alzo' lo sguardo e mi disse: "La risposta e' no. Ma andiamo a mangiarci un gelato, dai". Da allora camminiamo assieme, anche se molti pensano che stiamo assieme. Lei ha un cervello di prima classe. Mi dice"
"Don Baldo dice minchiate, sta prendendo in giro mia madre"
Capisco quello che vuole dire. 
"Io ho le ferie e in Africa ci sono sempre voluto andare"
Mi guarda negli occhi, ha deciso. Andiamo a cercare Pietro.
(1 - continua) 

archivio (41) La Moka da 24 tazze

La moka da 24 tazze. Sul fuoco. Una cosa enorme, questa caffettiera. Potrebbe essere usata facilmente come arma impropria: una caffettierata in testa e buonanotte ai suonatori. Ha una storia questa moka. Era il 1988. Pietro e io stavamo andando a Giggiga (Dijjiga) a cercare un pezzo di ricambio per il Landcruiser. La solita storia: qualche anima buona in Germania aveva donato la macchina (il Toyota Landcruiser) all'associazione di volontariato con cui lavorava Pietro. Ma non aveva pensato che la macchina ha bisogno di manutenzione e pezzi di ricambio, specialmente quando la si usa per lavoro in Africa. All'epoca in Etiopia c'era ancora il regime di Haile Mariam Mengistu, detto 'Black Label', e le importazioni di pezzi di ricambio erano gravate dal 120% di tassa. Una cosa micidiale: un sacco di macchine ferme. Meno male che il Landcruiser, a differenza dei vari altri (come li chiamano ora) SUV non si rompe facilmente. Anzi, per romperla occorre impegnarcisi. Ma ogni tanto un pezzo ci vuole, o magari quattro - per esempio gli ammortizzatori.

E insomma, sentimmo dire che al mercato somalo di Giggiga si trovava di tutto, contrabbandato a dorso di cammello attraverso il deserto dalla Somalia, dove il governo era collassato e l'anarchia imperava. Partimmo una mattina presto da Addis Abeba, previsti due giorni di viaggio. Lasciamo perdere la notte passata ospiti delle infermiere irlandesi distaccate presso la missione di Matahara, tanto non mi credereste: non successe niente. 

L'indomani scendemmo dall'altopiano dell'Hararghe e ci inoltrammo sulla strada che porta a Giggiga per poi raggiungere Zeila e il mare. All'epoca si andava veloci: non c'era traffico sulle piste, se non qualche camion: nonostante il sole, giubbotti di pelle e fazzoletti attorno al collo da tirare rapidamente su attorno al naso quando si incrociava la nuvolona di polvere che gli altri veicoli creavano sulla pista. Uno guida, uno fa le canne. Non e' difficile come puo' sembrare, fare le canne sulla pista - se la pista e' buona, e se chi guida e' bravo. Entrambi i casi coincidevano, quindi andavamo veloci e leggeri, facendo piani e progetti e idee. Dopo avere negoziato con successo un posto di blocco dell'esercito ('dovete venire a parlare col capitano. parcheggiate'. 'Ma dai sergente, siamo in ritardo...'. 'No no, il capitano vuole che tutti coloro che passano si fermino a bere con lui'. 'E cosa beve il capitano? whisky?'. 'Ahaha che ferengi scherzoso che sei. In questo buco di culo di posto? C'e' solo ouzo...')

Arrivammo a Giggiga, cittadina di case basse e bianche quasi dispersa nel bassopiano. Qualche rado albero, portici coloniali sulla strada polverosa. Dietro la piazza, il mercato. Che non e' altro che una distesa sabbiosa dove centinaia di persone convenivano sia dal sud che dal nord, questi coi muli, quelli coi cammelli, a comprare e vendere. Mucchi di roba alla rinfusa, tettoie di canniccio senza ombra, sacchi di dura e di teff, mucchietti di pomodori stantii, cipolle e berbere', polvere, polvere polvere. Trovammo gli ammortizzatori in mezzo ad una catasta di ferraglia e pezzi di ricambio, scavando fra i vecchi pezzi Land Rover, i ricambi per i camion Mercedes e Fiat 682 N3, parabrezza per il Nissan Pajero (una minchiata, il Nissan: non lo comprate mai). Ammortizzatori nuovi, ancora nelle scatole, con gommini e tutto. 

Mi stancai presto di negoziare il prezzo, e lasciai Pietro a discutere col somalo, capelli afro e pettine a forchetta sull'orecchio. Girando per il mercato trovai un ventilatore, di quelli da tavolo, giapponese, usato ma in buone condizioni ...questo lo compro subito e glielo regaliamo alle irlandesi a Matahara..almeno dissipera' i fumi di progesterone in quel posto..., e un poco piu' in la, seminascosta sotto una montagna di pelli di pecora, la caffettiera. Bialetti, alluminio, enorme. 24 tazze minimo, perfetta, nemmeno ammaccata, manico non bruciato. La presi, la svitai: guarnizione in ottimo stato, serbatoio per l'acqua un poco polveroso ma non ammuffito. Wow. La comprai subito dal somalo, non persi nemmeno tempo a contrattare: voleva poco, lui era un servo del Profeta, e loro bevono te'...