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Wednesday, 14 December 2011
In amore ci vuole coraggio...
(postato originariamente su una discussione sul coraggio in amore su Spazioforum e ricopiato qui per motivi sentimentali...)
Siete troppo filosofici, mistici, estetici.
D'altronde ognuno e' a modo suo.
Fino a qui ci siamo perfettamente dentro, ai commenti banali.
I miei, dico.
Il coraggio? Ci vuole. Magari non tutto il tempo.
Magari solo per un istante. Ma ci vuole.
Mi spiego con un esempio...
E' buio e caldo sotto il duvet. La sento moltissimo, vicina. Come ogni volta che siamo assieme, da mesi ormai.
Sento il suo corpo, il suo odore, il suo respiro.
Lei. Lei mi invade il sensorium come fosse acqua che mi riempie, mi scende dal naso e dalla gola. Ma invece di soffocare respiro profondamente, e ne voglio ancora.
Non mi ricordo di cosa stavamo parlando. Era pomeriggio, questo si che me lo ricordo.
Trova il coraggio, e nel mezzo della conversazione mi dice:
"...perche' io mi sono un po' innamorata di te..."
Non l'aveva mai detto prima.
Non ho il tempo di pensare o riflettere dopo questa affermazione.
Lo sentivo, lo sapevo, lo supponevo. Sesso di questa qualita' e potenza non nasce dal solo odore, o dai feromoni.
Qui si che serve il coraggio. Il coraggio di ignorare com'e' messa la nostra rispettiva vita quando non siamo assieme come ora: come se ci fosse una bolla attorno a noi, e tutto quello che non e' lei ne e' fuori, invisibile, inaudibile, inesistente. Le nostre vite, gli impegni, la transitorieta', il fatto che me ne dovro' andare prima o poi, come mi disse lei la prima volta.
Ma come faccio a non dirglielo?
Eppure mi ci vuole almeno un secondo per trovare il coraggio - il famoso coraggio - e canalizzarlo alle corde vocali. Prendendolo a calci per farlo muovere.
E per quel secondo, ho paura. Non di cio' che mi ha detto. Ma di cio' che devo dirle.
Ma il ritornello "La paura uccide la mente..." funziona per me, qui e ora, come in letteratura.
E la mia mente non si fara' fermare dalla paura. Non questa volta, non oggi.
"Anche io mi sono innamorato di te".
Al diavolo la paura, e all'inferno le conseguenze.
Nel frattempo pero' non posso trattenermi, e aggiungo: "Ma come sarebbe a dire, 'un po'?"
Ride, e viene piu' vicina.
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Sunday, 26 June 2011
A casa di mio padre 1
E insomma, io non avrei dovuto farlo.
Avrei dovuto pensarci.
Che mio padre non sarebbe stato contento.
Ma tant'e'.
Due mesi di una dieta siciliana estiva schifosamente salutare nonche' deliziosa. Pesce e cose di mare tutti i giorni, che' al Nonno piace.
Sughetti per la pasta fatti ogni due giorni, sempre diversi. Insalata fresca due volte al giorno, cosi' come il pane caldo. Caponatine ed involtini di spado. Pesche tabacchiere locali, sublimi. Angurie gia' dolci, dove il talento dell' houseboy di mio padre rifulge: non sbaglia mai un'anguria o un melone. E' quasi due mesi che aspetto che torni con un melone non eccellente, e sto ancora aspettando.
E insomma, considerato che sono qui per fargli compagnia, dopo tanta assenza, non posso dire di avere problemi.
Tranne quando me li vado a cercare come l'altro pomeriggio.
'Papa' vado al mare'
'Ah. Al mare vai?' mi guarda da sopra gli occhiali.
'Dai che te l'avevo detto. C'e' il ragazzo qui'.
(Lal) 'Io essere qui Nonno'
'Vai vai. A che ora torni?'
'Per cena, lo sai. Ti devo cucinare la pecora'
'E che ora e' "per cena"? Dimmi un orario!'
'Ma che domande mi fai? Non si cena alle otto ogni sera qui a casa tua?
'E quindi a che ora torni?'
'Uh...alle sette e mezza?'
'Eh no! Se devi cucinare la pecora devi tornare alle sei!'
'...Papa'...sono le quattro. Se non vuoi che vada al mare perche' tu non ci puoi venire dimmelo e non ci vado nemmeno io...'
'Io! Al mare! Ma stai scherzando! Vattene va', spostati fammi vedere la televisione...'
E insomma, torno a casa verso le sette e mezza, condisco le costolette d'agnello con aglio e rosmarino, sale e olio, e le arrostisco sulla piastra di ghisa. IN venti minuti sono pronte. Un profumino che non vi dico. Ma KT ha sviluppato una certa preferenza per la pecora nel corso degli anni e dei posti dove le pecore le mangiano tutti i giorni, senza dimenticare gli avi da parte di madre, tutti pastori di Sorso e dintorni.
Mio padre invece no.
Intanto ha fatto una faccia e non ha toccato la forchetta.
'Che carne hai detto che e' questa?'
'Pecora, papa'. Buona dai'
.........
'Ma e' pelle questa?'
'Papa', sono costolette. Forse e' grasso?'
'Ma infatti, e' grasso. Sono troppo grasse'
'Ma l'Ada Boni ha scritto nel 'Talismano della Felicita' che le carni dell'agnello di buona qualita' "devono essere sostenute e grasse"'
'Sara'...ma non mi piace tanto. Dammi l'insalata, dai...'
'Eccotela papa'
'E condita?'
'Lo sai che te la condisco nel piatto...ogni sera, aggiungerei...'
'Ah vero' dice 'Me lo ero dimenticato'
'Lal! Vuoi pecora?'
'Oh no Sir, io c'e' pesce Sir'
Quindi KT si e' pappato un mucchio di costolette d'agnello tutto da solo.
Forse e' un buon segno
Avrei dovuto pensarci.
Che mio padre non sarebbe stato contento.
Ma tant'e'.
Due mesi di una dieta siciliana estiva schifosamente salutare nonche' deliziosa. Pesce e cose di mare tutti i giorni, che' al Nonno piace.
Sughetti per la pasta fatti ogni due giorni, sempre diversi. Insalata fresca due volte al giorno, cosi' come il pane caldo. Caponatine ed involtini di spado. Pesche tabacchiere locali, sublimi. Angurie gia' dolci, dove il talento dell' houseboy di mio padre rifulge: non sbaglia mai un'anguria o un melone. E' quasi due mesi che aspetto che torni con un melone non eccellente, e sto ancora aspettando.
E insomma, considerato che sono qui per fargli compagnia, dopo tanta assenza, non posso dire di avere problemi.
Tranne quando me li vado a cercare come l'altro pomeriggio.
'Papa' vado al mare'
'Ah. Al mare vai?' mi guarda da sopra gli occhiali.
'Dai che te l'avevo detto. C'e' il ragazzo qui'.
(Lal) 'Io essere qui Nonno'
'Vai vai. A che ora torni?'
'Per cena, lo sai. Ti devo cucinare la pecora'
'E che ora e' "per cena"? Dimmi un orario!'
'Ma che domande mi fai? Non si cena alle otto ogni sera qui a casa tua?
'E quindi a che ora torni?'
'Uh...alle sette e mezza?'
'Eh no! Se devi cucinare la pecora devi tornare alle sei!'
'...Papa'...sono le quattro. Se non vuoi che vada al mare perche' tu non ci puoi venire dimmelo e non ci vado nemmeno io...'
'Io! Al mare! Ma stai scherzando! Vattene va', spostati fammi vedere la televisione...'
E insomma, torno a casa verso le sette e mezza, condisco le costolette d'agnello con aglio e rosmarino, sale e olio, e le arrostisco sulla piastra di ghisa. IN venti minuti sono pronte. Un profumino che non vi dico. Ma KT ha sviluppato una certa preferenza per la pecora nel corso degli anni e dei posti dove le pecore le mangiano tutti i giorni, senza dimenticare gli avi da parte di madre, tutti pastori di Sorso e dintorni.
Mio padre invece no.
Intanto ha fatto una faccia e non ha toccato la forchetta.
'Che carne hai detto che e' questa?'
'Pecora, papa'. Buona dai'
.........
'Ma e' pelle questa?'
'Papa', sono costolette. Forse e' grasso?'
'Ma infatti, e' grasso. Sono troppo grasse'
'Ma l'Ada Boni ha scritto nel 'Talismano della Felicita' che le carni dell'agnello di buona qualita' "devono essere sostenute e grasse"'
'Sara'...ma non mi piace tanto. Dammi l'insalata, dai...'
'Eccotela papa'
'E condita?'
'Lo sai che te la condisco nel piatto...ogni sera, aggiungerei...'
'Ah vero' dice 'Me lo ero dimenticato'
'Lal! Vuoi pecora?'
'Oh no Sir, io c'e' pesce Sir'
Quindi KT si e' pappato un mucchio di costolette d'agnello tutto da solo.
Forse e' un buon segno
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Friday, 13 February 2009
Carrying the Saint
L'acchianata di Sangiuliano
Stanotte, la notte del 5 febbraio, il carro ('a Vara) della santa, pesantissimo, con baldacchino sorretto da colonne, candele enormi, oro a tempesta, gioielli donati, la Legion D'Onore di Bellini spillata sul busto della Santa, risalira' tutta la via Etnea, tirata a braccia da centinaia di devoti in tunica bianca, fino a piazza Borgo, antico confine della citta', dove sara' accolta da quarantacinque minuti di fuochi artificiali come in nessun posto nell'isola, e migliaia e migliaia di persone che sfidano il freddo di febbraio per vederli.
Piu' tardi il carro, preceduto dalle dodici candelore, una per ogni corporazione di artigiani, ridiscendera' la stessa via Etnea, di cui scrisse non ricordo chi
dritta come una freccia
da Porta Uzeda al Tondo
s'innalza una delle piu' belle vie del mondo
verso le due del mattino, fra due ali di folla e sotto l'illuminazione a mille colori, il carro arrivera' al quadrivio con la via Marchese di Sangiuliano. Questa e' una strada settecentesca, facciata dopo facciata di palazzi barocchi, sentore dei Vicere' e pietra lavica nera, balconi di ferro battuto e giganteschi portoni di legno antico.
La via di Sangiuliano si diparte da via Etnea verso ovest, in leggera salita per un centinaio di metri. Poi di colpo sale ad angolo acutissimo, l'asfalto cede il posto alle basole di lava liscia, duecento metri di erta che sale verso il colle dei Benedettini, strada che le automobili devono fare in seconda, se c'e' fila in prima, scaldando le frizioni.
Stanotte la salita e' sgombra: aspetta il carro. Le basole sono lisce, la cera di innumerevoli candele da cento chili offerte alla santa le rende trappole pericolosissime a camminarci. I devoti devono tirarsi il carro fino in cima.
Mentre il carro arretra nella parte bassa della strada, dall'altro lato del quadrivio dei quattro canti, per permettere ai devoti di srotolare l'intera lunghezza delle due gomene da nave che lo tirano, le candelore salgono ad una ad una, il ritmo dei passi dei portatori scandito dalla folla, i colpi di mano del capo portatore sulla stanga di legno che guida il trasporto e il respiro della folla. Sulla salita delle candelore si scommette molto denaro: vince quella che ci mette piu' tempo a salire. Si, quella i cui portatori soffrono piu' a lungo, il sudore che bagna a rivoli spalle e braccia, le vibrazioni dei passi che fanno tintinnare i cristalli appesi al pesante oggetto votivo, le soste a mezza salita tenendo il ritmo e il passo, senza mai appoggiare il mostro per terra.
Ci vuole piu' di un'ora perche' tutte le candelore salgano, ad una ad una. La folla ondeggia ai lati della strada, i balconi straripano, i bambini sulle spalle dei genitori guardano questa sfida di forza fisica, devozione e pazzia religiosa con occhi sgranati.
Poi tocca al carro. I devoti si radunano tutti per questa parte della celebrazione. E' noto che pregiudicati e mafiosi latitanti diventano intoccabili per una notte, se hanno la tunica bianca e tirano il carro. Le due gomene vengono alzate e imbracciate da due lunghe file di uomini. altre cinque file si formano: tre fra le gomene, e due esterne ad esse, ai lati. Metodicamente, braccia e spalle si allacciano in una falange umana lunga duecento metri e larga sette uomini. Quelli esterni passano le braccia sulle spalle di quelli che reggono le corde, quelli interni li abbracciano ai fianchi e fra di essi, legati in nodi di muscoli e devozione. La salita si fa di corsa, per vincere il peso immane del carro. Chi dovesse cadere sarebbe perduto, schiacciato da centinaia di piedi e dalle ruote. Non c'e modo di fermarsi a mezza salita.
Quando la falange e' formata, scandita dal suono delle campanelle dei diaconi sul carro, la folla si azzittisce. Con un urlo in crescendo i devoti si lanciano come un solo uomo verso la salita, tirandosi dietro il carro. Il serpente, il coccodrillo umano divora le basole sotto i piedi, a un metro dalla folla assiepata. Il carro vibra, trascinato da forza irresistibile. Le decorazioni e gli ori tintinnano, le candele ondeggiano come al vento, la massa umana sale, teste abbassate all'unisono, foresta di spalle e muscoli che scorrono davanti a te che guardi, le voci di tutti che urlano lo sforzo e la passione, i rombo di centinaia di piedi sulla lava nera....
In un attimo e' finito. Il carro arriva al piano in cima alla collina, si ferma lentamente, il nodo umano si scioglie, le grida ei cori di 'viva!' diventano gioiosi: nessuno e' caduto, nessuno e' scivolato, la santa li ha protetti, come sempre.
Il carro svolta a sinistra lentamente, giu' per la Via dei Crociferi, si lascia ai lati chiese e chiostri, la salitina per la solitaria e bella Piazza Asmundo, passa sotto l'arco del convento, continua la strada verso il Duomo.
Oggi, il cinque febbraio. Ogni anno cosi'.
Stanotte, la notte del 5 febbraio, il carro ('a Vara) della santa, pesantissimo, con baldacchino sorretto da colonne, candele enormi, oro a tempesta, gioielli donati, la Legion D'Onore di Bellini spillata sul busto della Santa, risalira' tutta la via Etnea, tirata a braccia da centinaia di devoti in tunica bianca, fino a piazza Borgo, antico confine della citta', dove sara' accolta da quarantacinque minuti di fuochi artificiali come in nessun posto nell'isola, e migliaia e migliaia di persone che sfidano il freddo di febbraio per vederli.
Piu' tardi il carro, preceduto dalle dodici candelore, una per ogni corporazione di artigiani, ridiscendera' la stessa via Etnea, di cui scrisse non ricordo chi
dritta come una freccia
da Porta Uzeda al Tondo
s'innalza una delle piu' belle vie del mondo
verso le due del mattino, fra due ali di folla e sotto l'illuminazione a mille colori, il carro arrivera' al quadrivio con la via Marchese di Sangiuliano. Questa e' una strada settecentesca, facciata dopo facciata di palazzi barocchi, sentore dei Vicere' e pietra lavica nera, balconi di ferro battuto e giganteschi portoni di legno antico.
La via di Sangiuliano si diparte da via Etnea verso ovest, in leggera salita per un centinaio di metri. Poi di colpo sale ad angolo acutissimo, l'asfalto cede il posto alle basole di lava liscia, duecento metri di erta che sale verso il colle dei Benedettini, strada che le automobili devono fare in seconda, se c'e' fila in prima, scaldando le frizioni.
Stanotte la salita e' sgombra: aspetta il carro. Le basole sono lisce, la cera di innumerevoli candele da cento chili offerte alla santa le rende trappole pericolosissime a camminarci. I devoti devono tirarsi il carro fino in cima.
Mentre il carro arretra nella parte bassa della strada, dall'altro lato del quadrivio dei quattro canti, per permettere ai devoti di srotolare l'intera lunghezza delle due gomene da nave che lo tirano, le candelore salgono ad una ad una, il ritmo dei passi dei portatori scandito dalla folla, i colpi di mano del capo portatore sulla stanga di legno che guida il trasporto e il respiro della folla. Sulla salita delle candelore si scommette molto denaro: vince quella che ci mette piu' tempo a salire. Si, quella i cui portatori soffrono piu' a lungo, il sudore che bagna a rivoli spalle e braccia, le vibrazioni dei passi che fanno tintinnare i cristalli appesi al pesante oggetto votivo, le soste a mezza salita tenendo il ritmo e il passo, senza mai appoggiare il mostro per terra.
Ci vuole piu' di un'ora perche' tutte le candelore salgano, ad una ad una. La folla ondeggia ai lati della strada, i balconi straripano, i bambini sulle spalle dei genitori guardano questa sfida di forza fisica, devozione e pazzia religiosa con occhi sgranati.
Poi tocca al carro. I devoti si radunano tutti per questa parte della celebrazione. E' noto che pregiudicati e mafiosi latitanti diventano intoccabili per una notte, se hanno la tunica bianca e tirano il carro. Le due gomene vengono alzate e imbracciate da due lunghe file di uomini. altre cinque file si formano: tre fra le gomene, e due esterne ad esse, ai lati. Metodicamente, braccia e spalle si allacciano in una falange umana lunga duecento metri e larga sette uomini. Quelli esterni passano le braccia sulle spalle di quelli che reggono le corde, quelli interni li abbracciano ai fianchi e fra di essi, legati in nodi di muscoli e devozione. La salita si fa di corsa, per vincere il peso immane del carro. Chi dovesse cadere sarebbe perduto, schiacciato da centinaia di piedi e dalle ruote. Non c'e modo di fermarsi a mezza salita.
Quando la falange e' formata, scandita dal suono delle campanelle dei diaconi sul carro, la folla si azzittisce. Con un urlo in crescendo i devoti si lanciano come un solo uomo verso la salita, tirandosi dietro il carro. Il serpente, il coccodrillo umano divora le basole sotto i piedi, a un metro dalla folla assiepata. Il carro vibra, trascinato da forza irresistibile. Le decorazioni e gli ori tintinnano, le candele ondeggiano come al vento, la massa umana sale, teste abbassate all'unisono, foresta di spalle e muscoli che scorrono davanti a te che guardi, le voci di tutti che urlano lo sforzo e la passione, i rombo di centinaia di piedi sulla lava nera....
In un attimo e' finito. Il carro arriva al piano in cima alla collina, si ferma lentamente, il nodo umano si scioglie, le grida ei cori di 'viva!' diventano gioiosi: nessuno e' caduto, nessuno e' scivolato, la santa li ha protetti, come sempre.
Il carro svolta a sinistra lentamente, giu' per la Via dei Crociferi, si lascia ai lati chiese e chiostri, la salitina per la solitaria e bella Piazza Asmundo, passa sotto l'arco del convento, continua la strada verso il Duomo.
Oggi, il cinque febbraio. Ogni anno cosi'.
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Thursday, 5 February 2009
Orazio il tuffatore
Catania divide la sua costa in colori forti: a sud della citta' la plaia, la spiaggia si estende bianca e lucente in un arco gentile per dozzine di chilometri fino ai contrafforti rocciosi del siracusano.
A nord della citta' invece, dal lato della montagna, il lato dell'Etna, chilometri di rocce laviche nere scolpite dal mare seguono il percorso della storia e del mito. Porto Ulisse, i faraglioni di Polifemo, la casa del nespolo, le fortezze normanne, le citta' chiamate come la ninfa Aci si susseguono fra i fichidindia e i cespugli di cappero che macchiano la roccia nera. La "scogliera", che d'estate si riempie delle migliaia di persone che non sopportano la sabbia nel costume.
Il re incontrastato della scogliera era 'Arazio. Nessuno sapeva chi fosse veramente o quale fosse il suo cognome. Fisico asciutto, bassino, muscoli come corde bagnate, perennemente superabbronzato, capelli imbionditi dal sole, 'Arazio passava la vita a prendere il sole sulla scogliera. A Febbraio lo si trovava gia' li', in uno dei suoi posti preferiti, difendendosi dall'aria fredda con un fuoco acceso con i pezzi di legno gettati dal mare invernale sugli scogli, per i quali l'inglese ha una parola bellissima, driftwood. L'asciugamano rosso sbiadito e la scatola grande di Nivea, 'Arazio era sempre al mare, da solo, ogni giorno di sole dell'anno.
'Arazio parlava solo il catanese. Non aveva studiato ne' aveva velleita' culturali di alcun tipo. Pero' sorrideva sempre ed era gentile con tutti. 'Arazio non si muoveva troppo dal suo asciugamano, e quando lo faceva sembrava una lucertola al sole, lento e ponderato.
'Arazio era il tuffatore per antonomasia. Strabiliava tutti con la sua capacita' e abilita' di tuffarsi da qualunque punta della scogliera, a prescindere dall'altezza e dalla profondita' dell'acqua sotto.
A nord della citta' invece, dal lato della montagna, il lato dell'Etna, chilometri di rocce laviche nere scolpite dal mare seguono il percorso della storia e del mito. Porto Ulisse, i faraglioni di Polifemo, la casa del nespolo, le fortezze normanne, le citta' chiamate come la ninfa Aci si susseguono fra i fichidindia e i cespugli di cappero che macchiano la roccia nera. La "scogliera", che d'estate si riempie delle migliaia di persone che non sopportano la sabbia nel costume.
Il re incontrastato della scogliera era 'Arazio. Nessuno sapeva chi fosse veramente o quale fosse il suo cognome. Fisico asciutto, bassino, muscoli come corde bagnate, perennemente superabbronzato, capelli imbionditi dal sole, 'Arazio passava la vita a prendere il sole sulla scogliera. A Febbraio lo si trovava gia' li', in uno dei suoi posti preferiti, difendendosi dall'aria fredda con un fuoco acceso con i pezzi di legno gettati dal mare invernale sugli scogli, per i quali l'inglese ha una parola bellissima, driftwood. L'asciugamano rosso sbiadito e la scatola grande di Nivea, 'Arazio era sempre al mare, da solo, ogni giorno di sole dell'anno.
'Arazio parlava solo il catanese. Non aveva studiato ne' aveva velleita' culturali di alcun tipo. Pero' sorrideva sempre ed era gentile con tutti. 'Arazio non si muoveva troppo dal suo asciugamano, e quando lo faceva sembrava una lucertola al sole, lento e ponderato.
'Arazio era il tuffatore per antonomasia. Strabiliava tutti con la sua capacita' e abilita' di tuffarsi da qualunque punta della scogliera, a prescindere dall'altezza e dalla profondita' dell'acqua sotto.
All'epoca, con un paio di miei compagni di ginnasio e qualche altro amico cominciavamo ad andare al mare ad Aprile, quando il sole era abbastanza caldo da scaldare la lava solidificata della scogliera, anche se l'acqua era ancora fredda. Prendevamo il 32 dal centro e in mezz'ora arrivavamo al Selene, tratto di scogliera libera cosi' chiamato dal ristorante omonimo affacciato sul blu del golfo, venti metri sopra il mare. Sapevamo nuotare, essendo cresciuti alla plaia, ma ci tuffavamo solo a piedi in avanti oppure a bomba, e mai da piu' di un paio di metri di altezza, magari anche turandoci il naso. Facevamo un sacco di confusione e spruzzi, e ci divertivamo moltissimo.
Per qualche motivo rimasto ignoto, 'Arazio, dopo qualche tempo passato ad osservare - appoggiato su un gomito - i nostri miseri tentativi, decise di insegnare a noi pischelli a tuffarci. Comunicazione era un problema: il suo catanese era stretto e il nostro italiano ginnasiale: eppure bene o male ci riuscimmo.
"Coordinazione costante" erano il suo mantra, nonche' le uniche parole in lingua che conoscesse. Nel corso di un'estate calda, tenedoci praticamente per mano, ci insegno' a non avere paura, e ad entrare in acqua sempre perfettamente. In pochi lo seguimmo sempre piu' in alto sugli scogli, mentre altri, soddisfatti di avere imparato la tecnica di base, rimasero in basso. 'Arazio conosceva tutti i posti giusti per tuffarsi su e giu' per la scogliera, e ci dava appuntamento per il giorno dopo "sotto la tavenetta" oppure "alla nave di pietra", dove passavamo la giornata a studiare la sua tecnica e a tentare - poveramente - di imitarla. Ma lo seguimmo a tutte le altezze di scoglio, anche quelle che quando la folla di bagnanti come gabbiani sulle rocce lo vedeva salirci, si ammutoliva, si sedevano eretti sugli asciugamani, inforcavano occhiali da sole per vedere bene o allungavano le mani nelle borse per prendere le macchine fotografiche.
"Coordinazione costante" erano il suo mantra, nonche' le uniche parole in lingua che conoscesse. Nel corso di un'estate calda, tenedoci praticamente per mano, ci insegno' a non avere paura, e ad entrare in acqua sempre perfettamente. In pochi lo seguimmo sempre piu' in alto sugli scogli, mentre altri, soddisfatti di avere imparato la tecnica di base, rimasero in basso. 'Arazio conosceva tutti i posti giusti per tuffarsi su e giu' per la scogliera, e ci dava appuntamento per il giorno dopo "sotto la tavenetta" oppure "alla nave di pietra", dove passavamo la giornata a studiare la sua tecnica e a tentare - poveramente - di imitarla. Ma lo seguimmo a tutte le altezze di scoglio, anche quelle che quando la folla di bagnanti come gabbiani sulle rocce lo vedeva salirci, si ammutoliva, si sedevano eretti sugli asciugamani, inforcavano occhiali da sole per vedere bene o allungavano le mani nelle borse per prendere le macchine fotografiche.
'Arazio saliva agilmente ma lentamente sullo spuntone o sulla cima di roccia nera piu' alta che ci fosse in giro. Passava gran tempo a trovare la posizione di appiglio per le dita dei piedi, fondamentale per superare gli scogli sotto e le lame di lava che spuntavano ovunque dagli scogli. Perche' la lava nera si alliscia coll'azione del mare giu' dove le onde incessantemente la lambiscono, ma sopra, a dieci o quindici metri di altezza, dove gli spruzzi arrivano solo con le mareggiate di scirocco invernali, la lava e' una grattugia: si mangia suole e pelle di piedi solo a camminarci sopra. E 'Arazio aveva una predilizione per rocce non a picco. Rocce cioe' dove occorreva tuffarsi spingendosi molto in avanti per evitare di cadere sulla lava sottostante.
Una volta trovata la posizione, 'Arazio stava per parecchi minuti immobile, eretto, braccia piegate ai gomiti e mani davanti al petto, come in preghiera, guardando le onde che pigramente arrivavano dal largo e si perdevano nella cala sotto, molto sotto di lui.
Poi, come una molla, si lanciava verso il sole, braccia improvvisamente aperte, un riflesso color cuoio nuovo contro il blu del cielo...arrivato all'apice della spinta il torace e la testa si piegavano come un coltello a serramanico verso il basso, le braccia si chiudevano in avanti, e le gambe seguivano la direzione imposta dalla gravita' rialzandosi verticalmente dietro ed in alto, il tuffo carpiato perfetto da venti metri di altezza, il corpo ancora librato in aria, sospeso come il fiato di tutti i presenti. E poi giu' giu, a picco, coordinazione costante, contro lo sfondo di roccia nera, talloni uniti, braccia e mani pronte a rompere il pelo dell'acqua, per un tempo che non sembrava non finire mai, fino a sparire con piccolo spruzzo ed un piccolo splash nel verde-blu del mare sotto, entrando in acqua - orrore supremo - esattamente nel metro e mezzo di mare disponibile fra due scogli affioranti.
Una volta trovata la posizione, 'Arazio stava per parecchi minuti immobile, eretto, braccia piegate ai gomiti e mani davanti al petto, come in preghiera, guardando le onde che pigramente arrivavano dal largo e si perdevano nella cala sotto, molto sotto di lui.
Poi, come una molla, si lanciava verso il sole, braccia improvvisamente aperte, un riflesso color cuoio nuovo contro il blu del cielo...arrivato all'apice della spinta il torace e la testa si piegavano come un coltello a serramanico verso il basso, le braccia si chiudevano in avanti, e le gambe seguivano la direzione imposta dalla gravita' rialzandosi verticalmente dietro ed in alto, il tuffo carpiato perfetto da venti metri di altezza, il corpo ancora librato in aria, sospeso come il fiato di tutti i presenti. E poi giu' giu, a picco, coordinazione costante, contro lo sfondo di roccia nera, talloni uniti, braccia e mani pronte a rompere il pelo dell'acqua, per un tempo che non sembrava non finire mai, fino a sparire con piccolo spruzzo ed un piccolo splash nel verde-blu del mare sotto, entrando in acqua - orrore supremo - esattamente nel metro e mezzo di mare disponibile fra due scogli affioranti.
Solo allora gli astanti respiravano. Quando riemergeva, applausi e voci lo accompagnavano al suo asciugamano sbiadito, dove si stendeva ad asciugarsi, un pezzo di sorriso all'angolo della bocca e una innata modestia che gli impediva di riconoscere le emozioni che dispensava.
Le storie su di lui erano tante: che era un ex-calciatore, che fosse del rione San Cristoforo, covo di amici e di donne dagli occhi di bragia, che vivesse mantenuto da una donna...nessuno di noi volle mai sapere davvero chi fosse o cosa facesse: era 'Arazio il tuffatore, leggenda della scogliera, pelle di serpente e sorriso costante.
Per quanto ne sappia, e' ancora li' che si spalma di nivea ed insegna ai ragazzini come non farsi male nel passaggio fra la roccia, il cielo e il mare.
Le storie su di lui erano tante: che era un ex-calciatore, che fosse del rione San Cristoforo, covo di amici e di donne dagli occhi di bragia, che vivesse mantenuto da una donna...nessuno di noi volle mai sapere davvero chi fosse o cosa facesse: era 'Arazio il tuffatore, leggenda della scogliera, pelle di serpente e sorriso costante.
Per quanto ne sappia, e' ancora li' che si spalma di nivea ed insegna ai ragazzini come non farsi male nel passaggio fra la roccia, il cielo e il mare.
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