Wednesday 4 February 2009

archivio (23) Mosca, 1987

La neve fresca scricchiola sotto gli stivali. Petja mi parla nel suo inglese esitante.
'La tua prima volta a Mosca. Ci sono dei posti che devi vedere'
'Ma sai, meno 17 gradi e' un poco troppo freddo per me...ho preso il volo Aeroflot per andare in Africa, non avevo pensato facesse cosi' freddo qui..."
"Ah ah ah voi decadenti occidentali non sarete mai all'altezza della Rivoluzione! cammina!"

Petja e' minuto, biondino e fa il pittore, quindi e' tecnicamente un dissidente politico, anche se non e' abbastanza conosciuto da avere problemi. Ho dormito a casa sua, ospitalita' organizzata dalla mia ex compagna di liceo G, la quale sta qui a Mosca anche lei ma non ha spazio per accogliermi. Petja ha fatto piu' di quel che doveva. Ospitalita' rustica, ma sincera. La sua compagna ha cucinato dei ravioloni imbottiti di patate, magari blandi ma sicuramente sfamanti, e prima ancora abbiamo fatto un'ora di fila dal macellaio per comprare due salsicce. Come nei libri.

E' il 1987 e il socialismo reale gode apparentemente di ottima salute. Dicembre, il cielo come di piombo opprime la citta'. Il fumo delle macchine fa pennacchi nell'aria ferma. 
Petja mi ha portato a vedere il mausoleo di Lenin sulla piazza rossa, a prendere un te' all' hotel Mosca, e ai grandi magazzini GUM, centinaia di negozi tutti desolatamente vuoti. Gli unici con qualcosa in vetrina erano quelli che vendevano cappelli di pelliccia e bustiere da donna, tipo corazza. 

E' tardi, gia' buio, ma Petja imperterrito mi trascina in giro per la citta'. Camminiamo lungo una strada un po' lontano dal centro, palazzi nondescript a tre o quattro piani, piu' che antichi, vecchi. L'illuminazione stradale e' una stringa di lampadine gialle. Ziguli' scassate passano sulla strada e sollevano schizzi di fanghiglia nevosa. 

"Siamo arrivati"
"Er...dove?"
"Qui. Entriamo".
E' un portoncino di colore vecchio, scrostato, in uno dei palazzi. Pietja sparisce nell'oscurita' e io, dubbioso ma curioso, lo seguo. All'interno l'androne e' spoglio e puzza di disinfettante sovietico, come ovunque. Una lampadina solitaria e nuda proietta un cono di luce per terra. Le pareti sono intonacate di un colore rossastro scuro, e decorate - cosa strana questa - con disegni neri indefinibili. Petjia si volta, al centro dell'androne, e mi dice:
"Benvenuto nella casa di Mikhail Afanesévich. Non possiamo salire nel suo appartamento perche' e' chiuso, ma ho pensato che ti avrebbe interessato vedere questo". E cosi' dicendo, con un gesto del braccio mi indica le pareti tutt'intorno. 

Non ho capito niente, non so nemmeno chi sia Mikhail Afanesévich. Ma c'e' qualcosa di strano in questo posto. Mi avvicino al muro, strizzo gli occhi per vedere bene. I 'disegni neri' sono scritte, scritte fatte a mano, a penna o matita. Sembrano dediche, o frasi sparse, in cirillico. Mi allontano di nuovo, e gradatamente mi rendo conto che qualcuno, anzi molti, hanno completamente ricoperto ogni centimetro quadrato di parete e (guardo in alto) di soffitto con scritte. Non c'e' uno spazio libero: muri, angoli, scale...tutto coperto di scritte. Graffiti del socialismo reale. Una cosa inaspettata, e soprendente. Ma non ho ancora capito. Petja si accende una sigaretta russa di quelle che servono anche come gas lacrimogeni, e si mette a braccia conserte. 

Mi riavvicino al muro, passo con gli occhi sulle migliaia di righe scritte a mano, da centinaia di persone diverse, in tempi diversi...anni e anni di scritte, di dediche, di pensieri. Sotto la scrittura visibile c'e' altra scrittura piu' antica, sbiadita. Improvvisamente vedo una B e una M, caratteri latini. Mi avvicino come lo zoom di una camera, voglio sapere cosa sia tutto questo. Piccola, di traverso, c'e' una scritta fatta a penna, in inglese.
"Ho sempre voluto venire qui dove 'Il Maestro e Margherita' e' stato scritto, e ora che ci sono riuscito riesco solo a dire 'grazie'.

Finalmente capisco, e inaspettatamente mi emoziono. 

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