Sunday, 17 October 2010

On a bus

Allora. Dal Kenia dovevo anche andare in Uganda - come parte delle responsabilita' che mi hanno affibbiato c'e' anche di visitare i posti dove l'organizzazione per cui lavoro ha programmi per crescere le capacita' locali di occuparsi dei casi di cui dicevo sotto. Avrei potuto prendere un aereo, ma e' da tanto che volevo vedere la Rift Valley in Kenia, e quale modo migliore di vederla che non attraversarla da est a ovest?
Naturalmente avrei dovuto immaginare che non sarebbe stata una passeggiata, ma col senno di poi...
L'autobus e' una corriera di linea, ditta 'Akamba'. Nairobi - Kampala in 12 ore. E' cominciata male: arrivati alla stazione delle corriere di Nairobi scopriamo che i nostri posti (siamo cinque: quattro colleghi dell'ufficio in Uganda, e io), gia' pagati e prenotati, sono stati venduti ad altri perche' 'non abbiamo riconfermato'. Una delle colleghe, Alice (alta, magra, nerissima, capelli a treccine, dita affusolate e unghie rosse) storce le braccia figurativamente al funzionario della biglietteria, e dopo un po' riesce a far salire sul bus la collega che non sta molto bene. Per noi, il prossimo autobus, dopo un'ora.
Ad aspettare con noi un folto gruppo di donne Ugandesi, reduci da una conferenza di movimenti di donne africane a Nairobi. Non mi sono ancora abituato ai tratti somatici. Quando ero in Etiopia, anni fa, la gente era un po' piu' scura di noi, ma non molto, e i loro tratti erano indoeuropei: nasi e labbra sottili, facce che avrebbero potuto essere europee. Qui invece sono nel bel mezzo delle varie etnie Bantu: nere, lucide, e spesso grandi e grosse. Devo dire che, anche se culturalmente affascinanti, come femmine non mi attirano proprio. Piedi come pale...
Alla fine arriva la corriera, si caricano i bagagli, e si parte. Come sempre mi succede in aereo, mi addormento quasi istantaneamente. Il sedile e' comodo, e il conductor - un gentiluomo locale con un berretto a colori e un sorriso smagliante - mi sveglia prima ancora di uscire dalla citta' per timbrare il biglietto. Mi riaddormento subito. Mi sveglia il cambiamento del ritmo del motore, non molto dopo. Siamo fuori citta', e la strada ha raggiunto il limite occidentale della cresta su cui sorge la citta'. Apro gli occhi, e la prima cosa che vedo e' una valle immensa, il fondovalle piatto e giallo, il lato opposto della valle nascosto dalle nubi e dalla distanza. Fra me e me mi esce dalle labbra un 'My God'. Nel mezzo della valle un vulcano nero, cratere rotondo perfettamente visibile da sopra (il lato della valle su cui scorre la strada e' altissimo). Scopriro' dopo che questo vulcano e' piu' o meno grande quanto il Vesuvio, eppure non solo si vede tutto, ma appare anche piccolo in mezzo alla piatta immensita' della valle. Appoggio il naso al finestrino e guardo fortemente, per imprimermela nella memoria. Attorno a me molti dei passeggeri dormono, per essi questa e' routine.
Il bus va veloce, scendendo il lato della valle. Dopo quattro ore siamo a Nakuru. Sosta di cinque minuti per corse al cesso e rifornimenti di acqua e viveri. Il cesso e' normalmente sporco e puzzolente, ma tanto io in piedi devo stare...quando esco dal cubicolo scopro con orrore che le donne della'autobus hanno invaso anche la parte degli uomini, per non dover fare a lungo la fila dalla loro parte. Cose mai viste...compro acqua, biscotti e sigarette, e si riparte. Qui, a differenza di Nairobi, fa caldo. Il sole picchia ed e' con un sospiro generale di soddisfazione che la vettura si rimette per strada. La strada, A104, corre verso nordovest a fondovalle, poi si biforca e noi prendiamo la B1 a sinistra, salendo e scendendo sulle colline della foresta di Mau - conifere e altri sempreverdi, bello spettacolo che sfugge ai due lati della strada. La valle (perche' le colline sorgono nel mezzo della valle) e' abitata, e lungo la strada cio' e' perfettamente chiaro: villaggi frequenti, stradine secondarie, campi coltivati a mais, siepi a dividere proprieta'. Essendo sabato, un sacco di gente in giro. E le scuole, e le chiese. Ce ne sono letteralmente centinaia lungo la strada. Strutturalmente nessuna di esse e' gran che - edifici ad un piano col tetto di lamiera, bassi ed accucciati fra gli alberi, ma grandi cartelli dipinti a mano lungo la strada ne indicano il nome, l'appartenenza - moltissime chiese pentecostali, protestanti di vario genere, indipendenti, testimoni di geova, assemblee di dio, ed anche cattoliche. Ovviamente c'e' da scegliere, e mi rendo conto di quanto siano religiosi queste genti. Secoli di missionari hanno lasciato il segno. Le scuole pure: private nella stragrande maggioranza, sia primarie che secondarie, coi nomi delle localita' che servono e il motto - sempre - dipinto sotto il nome. 'Studiare per Eccellere' 'L'Istruzione e' la Chiave del Futuro' eccetera eccetera.
La strada continua lungo il margine del Mau. La corriera e' rumorosissima: il cambio gratta, i vetri vibrano, e le donne ciarlano a voce altissima fra di loro - in inglese, coinvolgendo quindi tutto il resto dei passeggeri. Sulle colline attorno a Kericho, per almeno venti chilometri, su entrambi i lati della strada, attraversiamo le piantagioni di te' della Unilever. Interi villaggi sono compresi nella tenuta, e i cespugli di camellia sinensis, bassi, fitti, e attaccati l'uno all'altro coprono chilometri e chilometri di una coperta verde. Quest'immensita' verde e' divisa da stradine regolari, case dei lavoratori, scuole, e chiese - tutte circondate dalla piantagione. I raccoglitori, uomini e donne, si muovono lentamente fra i cespugli, cesta sulle spalle, raccogliendo le foglioline tenere dalle cime delle piante. La cosa sembra non finire mai. Cioe', ho visto piantagioni di te' altrove, ma questa e' una monocultura su scala colossale. E la maggior parte serve al mercato domestico: keniani amano il loro te' - latte caldo e sacchetto di te' dentro. Acqua? Naaah.
Altra sosta, questa volta per far scendere qualcuno che si e' sentito male per le vibrazioni e gli scossoni. Mal di mare...nessun altro scende: il conductor tiene fieramente il corridoio e minaccia di ordinare all'autista di ripartire se qualcuno si azzarda a scendere. Le donne sull'autobus lo prendono in giro allegramente, e il buon uomo, sapendo di non poter vincere, si ritira in buon ordine. Fuori dal bus i locali vendono mais arrosto, pacchi di te, bibite, frutta ed altri conforti. Il commercio avviene attraverso i finestrini, con grande sventolio di denaro e vesti colorate. Si riparte presto, di nuovo verso occidente. La strada scende dalle pendici del Mau e fila verso Kisumu, ultima citta' prima del confine. L'autista mette spesso due ruote fuori dall'asfalto per sorpassare, o per fare passare altri veicoli in senso opposto. Questo non fa bene al veicolo, ed infatti una ruota scoppia con un gran botto. Non vi dico le donne a bordo: dai gridolini alle urla, mani al viso, al petto, occhi sgranati, altri urletti. Ad alta voce dico 'gomma!' e la scena di panico si calma - con notevole imbarazzo delle signore, trovatesi ad essere tranquillizate da uno straniero, e uomo per giunta...

Thursday, 14 October 2010

Back to Africa. Tredici anni dopo.

Kitui e' una cittadina quasi dispersa fra le ondulazioni del terreno - rosso e arido, acacie e boscaglia secca dal sole - che scende dalla Rift Valley verso l'oceano Indiano. Non e' sulla strada principale Nairobi - Mombasa, e non e' nemmeno negli itinerari turistici del Kenia. Un posto senza particolari attrazioni, ma capoluogo del distretto delle genti Kamba, e sede di diocesi. Proprio la diocesi e' il motivo per cui sono qui. Non che sia diventato improvvisamente chiesastrico, intendiamoci. Gli e' che in Africa la chiesa e' spesso l'unica istituzione la quale fa cose che quasi nessun altro fa.
Nel caso specifico, nascosta in un angolo della scuola intitolata a San Michele, di proprieta' del vescovo, e frequentata da ragazzi del luogo (pantaloni o gonna grigia, camicia bianca, pullover blu), c'e' una scuola per sordi. E nascosta in un angolo di quest'ultima c'e' una classe per bambini sordi e ciechi. Non sono tanti - per fortuna. Solo una dozzina, dai quattro ai sedici anni. Bambini e bambine trovati nei villaggi e nelle campagne del Kenia orientale, entro un raggio di un giorno di viaggio da qui. Quando li trovano sono spesso allo stato semiferale, incapaci di comunicare con la loro famiglia, abbandonati a se stessi, incapaci a cavarsela da soli nelle cose piu' elementari - come andare al cesso per esempio - quindi sporchi, spesso affamati, vestiti di stracci, una vergogna per i loro genitori e per il loro villaggio. O cosi' vengono considerati. E quindi li tengono nascosti, in fondo al cortile, dietro una tenda, lontano dagli occhi e dal cuore.
C'e' gente - maestri specializzati - i quali vanno in giro a carcarli, questi bambini. Quando li trovano convincono i loro genitori a portarli qui a Kitui, e ad affidarli alla scuola. Per questi bambini la scuola e' un collegio, ovvero vivono a tempo pieno. I loro genitori vengono a prenderli solo per le vacanze, e poi li riportano.

Non che questa gente potrebbe permetterselo, di mettere questi figli in una scuola speciale a tempo pieno. Parlo di contadini, braccianti, piccoli commercianti locali con un banchetto di legno lungo la strada, spesso con famiglie numerose, altri figli da mantenere e mandare a scuola, e una profonda vergogna, nascosta, di avere messo al mondo un figlio danneggiato, con il quale non possono parlare, ne' a voce ne' a gesti. Possono solo toccarli, ma ho imparato oggi che il tocco da solo - non istruito, non formato, come linguaggio non basta.

Un po' di sfortuna, un po' di fortuna, il cinese dentro KT oggi pensava. La scuola si prende questi bambini ciechi e sordi, e non si fa pagare niente. Ci pensano benefattori locali o internazionali a questo. Come la ONG con cui sono ora. Naturalmente metterli a scuola non basta. Occorrono insegnanti specializzati - e ci sono, il governo del Kenya ha una scuola di formazione per insegnanti di questo tipo. Ne occorrono tanti - l'ideale sarebbe 1 a 1, ma anche cinque maestri per dodici bambini funziona, come ho visto oggi.

Non sapevo esattamente cosa aspettarmi, ma non e' stato terribile come temevo. Certo, si muovono a scatti, o rimangono fermi, o fanno movimenti improvvisi, i visi distorti, gli occhi velati, suoni gutturali - non hanno mai imparato a sentire, quindi nemmeno a parlare. I maestri mi hanno impressionato. Li toccano in continuazione: mani, braccia, teste, spalle. Li abbracciano, li prendono in braccio, per mano. Gli parlano, gli sorridono, anche se per i bambini essi - i maestri - sono solo forme da toccare con le mai, e odori. Fanno sentir loro che non sono soli.

La prima cosa che gli insegnano e' ad andare in bagno. Ovviamente. Non che sia facile, credo, ma questi dodici hanno imparato tutti. Alcuni di loro hanno un residuo di vista, o di udito. Non tutti. Con pazienza, imposizione delle mani, e tecniche d'insegnamento specializzate, piano piano questi bambini diventano cio' che dovrebbero essere - bambini. Alcuni di essi verranno riabilitati del tutto - magari con tecniche chirurgiche agli occhi o alle orecchie. Altri, la maggior parte, vivranno una vita diversa, e limitata dal loro sensorium imperfetto, ma pur sempre piena di emozioni e sentimenti. Come tutti.

Oggi c'erano anche alcuni dei genitori. Due madri, un padre. Venuti a parlare con noi, a raccontarci come l'aiuto che diamo a questa e ad altre scuole gli abbia cambiato la vita. Questo si che mi ha impressionato: una madre, quando le e' stato chiesto come l'opportunita' di avere sua figlia in questa scuola abbia cambiato il suo rapporto con la bambina, ha parlato a lungo. Ha detto di come prima fosse piena di vergogna per questa figlia. Di come la tenesse nascosta dai vicini. Di come la trascurasse in favore degli altri suoi figli - non per avarizia di sentimenti, chiaramente, ma semplicemente perche' non poteva comunicarli o capire quelli di lei. Serena, seduta con noi, kanga colorato attorno ai capelli, ci ha detto di come la scuola - i maestri - le abbiano insegnato i rudimenti di comunicazione tattile - mano su mano, o mano sulla schiena. Di come abbia imparato a capire cosa significhino i gesti e i suoni della figlia. Di come la maestra abbia accompagnato la bambina al villaggio, e dimostrato alla famiglia e ai vicini come comunicare, e spiegato a lungo quali siano i problemi di sviluppo e di cognizione, e come affrontarli. Ma sopratutto, ha detto questa madre, sguardo calmo, testa eretta, come abbia imparato - dopo anni - ad amare sua figlia.

Wednesday, 18 August 2010

Al mare. Sort of.

Per la prima volta in tutti gli anni che abbiamo vissuto in Albione, siamo andati al mare quest'anno. In Cornovaglia. Of course ha piovuto tutti i giorni. Ma dato che nel Ducato piove sempre, e tutti lo sanno, siamo andati preparati. Tenda tedesca, non una goccia d'acqua tranne quella che portavamo dentro noi. Sacchiletto, giacche a vento, fornelletto a gas (per fare il caffe' la mattina e il te' la sera), parapioggia cinese (mio, questo) piu' o meno completano l'equipaggiamento. Le figlie di KT, le quali hanno in passato avuto una sola esperienza di campeggio, molto lontano da qui, hanno aspettato la vacanza con trepidazione, ed erano talmente entusiaste all'idea che un giorno - prima di andare - mi hanno presentato quattro rotoli di spugna spessi 2 centimetri come materassi da tenda. Dopo essere inorridito sono andato a comprare quattro materassini gonfiabili, che naturalmente si sono rivelati vincenti. Una o due notti per terra si, otto no di certo. Il chilometraggio si farebbe sentire.

Ma divago. La Cornovaglia e' carinissima e molto piccola - il piedino dell' Inghilterra, quello rivolto verso l'America. A sud, l'Atlantico, a nord il mare d'Irlanda. Piove sempre ed e' verdissima, punteggiata da villaggi minerari, chiese di tutte le sette possibili ed immaginabili (un bel po' di coloro che si rifiutarono di fare il Giuramento di Supremazia sotto Elisabetta I e successori finirono quaggiu', dove si costruirono le loro chiese di pietra - come le case - in tutti gli angoli, sia nei paesi, che perse fra le colline). Il Ducato (il Duca e' Carlo) e' corollato da porticcioli dove ancora pescano, anche se non contrabbandano o pirateggiano piu'. Anche le miniere di stagno, molte delle quali risalenti a quando i romani comandavano, sono ormai tutte chiuse. Ma niente paura! La campagna e' interamente coltivata, ogni casa e' un bed&breakfast, e una buona parte degli eccentrici e degli artisti e' venuta a rifugiarsi quaggiu'. Molti si sono aperti un museo personale - quello dei trenini modello e' particolarmente bello, quello sui naufragi e' bellissimo, e quello sulla stregoneria e' piaciuto a figlia numero 1. Io non l'ho visto, sono rimasto fuori perche' era spuntato il sole. O un posto dove mangiare, o una galleria d'arte. Ed alcuni, visionari, si sono inventati cose come il progetto Eden ('eden project') - come educare alla conservazione del globo in larga scala. In un giardino con serre geodetiche giganti dentro una ex-cava - cosa alla quale gli inglesi, notoriamente pazzi per l'idea di giardino con annessi e connessi culturali, si sono subito appassionati: una folla.

Comunque, una mattina che non pioveva e c'era un bel sole siamo andati al mare. Per la prima volta da quando sono arrivato qui (that would be 1998 madam) sono andato al mare in Inghilterra. Con la famiglia. La mappa 1:50.000 e' perfetta per fare le strade B ed evitare le code ciclopiche di tutti i turisti che si spostano su e giu' in auto, camper e roulottes. Le valli che corrono da sud a nord fra le due coste sono coperti da foreste alte abbastanza da trasformare le strade in gallerie verdi e buie. Abbiamo trovato una spiaggia sulla costa nord, rientrata abbastanza fra due lati di scogliere per essere abbastanza protetta dal vento. La prima cosa strana e' stato il chiosco vicino al parcheggio (parcheggio d'erba verde in agosto): affittavano schermi antivento (un nastro di tessuto 1 metro per 3 metri con paletti per piantarlo sulla sabbia), tavole da surf si quelle corte, e mute da bagno. Non un ombrellone in vista...

Scendiamo, e' breve, c'e' ancora poca gente. Ovviamente una spiaggia per famiglie. Il mare e' lontanissimo, siamo quattro ore in ritardo sull'alta marea. Ma tanto io non me lo devo fare, il bagno.
E comunque, mentre le ragazze scompaiono tutte verso il mare - lontanissimo, sicuramente gelato - io mi sdraio, e dopo una mezz'oretta mi tolgo scarpe e calze. Ho il libro, leggo. Continua ad arrivare gente. Il rumore di mazzuoli sui paletti dei teli antivento e' continuo - sembrano i martelli pneumatici ad Hong Kong. Quando alzo la testa mi accorgo di essere circondato su tre lati da recinti rotondi di antivento piantati uno attaccato all'altro a formare un cerchio, dove gli inglesi si sistemano subito a prendere il sole - proprio come nel loro giardino, a casa. Privacy in spiaggia. Non un ombrellone in vista, eppure c'e' il sole.

La cosa mi sembra talmente strana che mi siedo dritto e mi guardo in giro per capire meglio questo fenomeno. e' come in spiaggia in Italia: famiglie, gente che va e viene dal mare (in muta da bagno pero': roba spessa e ovviamente non disegnata per camminare fino al mare...). Ma gli inglesi si sono tutti ricreati la privacy del loro giardino, e vanno al mare cosi'.

Un ragazzo chiede alla madre "sono gia' arrosato?"

Friday, 2 April 2010

Domani finiro' il mio cinquantesimo anno di vita. Il che mi ricorda il giorno prima di compierne diciotto. Ecco com'ero...

Domani avro' diciotto anni e sono insoddisfatto come solo un diciassettenne brufoloso e fondamentalmente vergine puo' esserlo. Aprile e' gia' primavera qui nel sud, l'aria di sera e' tiepida. Cosa faro'? Non avro' mai piu' diciotto anni. Da domani posso guidare votare e firmarmi le giustificazioni da solo - per soli tre mesi, ma e' una soddisfazione. Cosa faccio? Seduto sotto i
ficus ciclopici di piazza Santa Maria di Gesu' guardo pezzi di cielo, le auto che passano e la gente che entra ed esce dalla pasticceria Privitera. All'altro capo della piazza via Cibele sale verso nord, fra i palazzi a destra e i Salesiani a sinistra, una fetta dello stesso cielo nel mezzo, e sotto in fondo, dove la prospettiva si perde, una macchia bianca: la neve intorno al cratere centrale. Sopra, un pennacchio di fumo piegato verso oriente, come sempre.
Mi torna in mente una frase letta su un libro sugli indiani d'America, un rito di passaggio: "Sali sulla cima di una montagna e piangendo aspetta una visione". Che stupidaggine sublime. Ma fra poche ore avro' diciotto anni, e niente mi sembra piu' adatto all'occasione. Si. Faro' cosi'. Anzi, lo faccio subito.
Vado a casa, riempio uno zainetto, prendo la corriera fino al Rifugio Sapienza. In due ore sono li'. E da li' salgo a piedi, incrociando turisti diurni che ridiscendono mentre il sole tocca l'orizzonte ad ovest. Dietro di me e molto piu' in basso la citta' e la pianura sono gia' macchie scure costellate di briciole di luce. Sopra, il cono del cratere e' grigio e rosa, ancora illuminato dagli ultimi raggi del sole. La salita e' facile ma lunga, il pendio dolce.
Quando arrivo sull'altipiano a quota 2900 e' notte. Mi fermo qui. Al cratere - il quale si erge come un mostro piegato su se' stesso e mezzo addormentato al centro dell'altopiano - ci saliro' domani. Stendo il saccoletto in un angolo della veranda del rifugio ancora chiuso, fuori stagione, al riparo dal vento, mi siedo come un indiano (penso), e rimango li' a guardare in basso le luci di meta' della Sicilia che svaniscono lontane.
Passo la notte cosi', pensando alla mia vita che sembrava non dovesse arrivare mai a diciotto anni e ora improvvisamente li ha trovati. Penso a quando avro' quarant'anni, nel 2000. Penso alla ragazza che mi piace in quel momento, capelli neri e lunghi. Penso a tutto tranne che a cose importanti o che possano garantirmi una visione indiana. Le stelle riflettono le luci in basso, ma sono molte di piu'. Meta' del panorama e' vuoto, nero, come il nulla: il mare Ionio inghiottito da se stesso, la luce fioca di qualche paranza lontanissima galleggia nel vuoto. E' gia' domani, sono gia' adulto. Sono uguale a prima. Sono sempre uguale a me stesso. Forse non e' una visione, ma a questo punto della mia vita e' gia' abbastanza per qualificarsi come rivelazione.
Sotto di me l'Etna brontola in toni bassi, sento solo le vibrazioni nella pietra su cui sono seduto. Solo come mai prima, guardo l'orizzonte ad oriente che ancora non c'e'. Mi chiedo cosa ci sia per me in quella direzione. Con un sospiro che mi ricordo anche se forse non ci fu, mi dico che un giorno ci andro'.
Quando fa luce salgo al cratere, giro intorno al fumo e alla puzza di zolfo, guardo brevemente nell'abisso ma non mi fermo. Continuo verso nord e ridiscendo. Ho un esame di maturita' da fare. E un sacco di posti dove andare.

Thursday, 12 March 2009

A short drive in Gansu (1)

(I wrote this for the company's blog, but I don't think they'll use it, so I'll put it in here instead - all corporate references have been ruthlessy exterminated).

Driver Lee has a very loud voice. If he wasn’t Chinese he could be from Texas. I am sitting next to him, on the front passenger seat of this tiny van we've rented to reach Longnan city, in the remote southern part of Gansu province. When I saw the van this morning, parked outside the hotel in Longxi city where we have been based for the last two days, I was convinced there was no way the five of us and our bags could fit in it. It is one of those tiny city vans common in Asia – small wheels, little engine, only one side sliding door for the passengers. I was so sure that we could not fit that I bet 10 yuan with Weilin, who thought that it would be just fine. Of course I lost the bet – driver Lee managed to get everything and everyone aboard, and I must remember to give the 10 yuan to Weilin as soon as we stop – right now I can't reach my wallet, which is inside my bag behind my legs.

Driver Lee has been at the wheel since eight o’ clock this morning, and it is now six PM. He has never stopped talking for more than five minutes, except when we halted for lunch in a small village along the road. His high-pitched (and loud – did I say loud?) voice is about ten inches from my left ear. Now my ear hurts - for the last hundred kilometers or so I have been covering it with my left hand, trying to make a point. Not that Driver Lee is good at hints – perhaps I should just tell him to keep his voice down. But I am not going to. This continuous talking is a good thing: I know he's awake. He’s a good driver though: his eyes never leave the road ahead. On the other hand, I must rely on Weilin to translate the interesting bits for Claudia and me.

Weilin is a colleague, and she's sitting behind me, between Claudia, who has wrapped herself in her lilac pashmina and nodded off some time ago, and Yang, who does not talk much. They are all work colleagues.

Obviously, Weilin is also concerned with keeping driver Lee awake, so she keeps on a steady stream of questions about his past life as lorry driver in the rich southern province of Guangzhou. That must be the reason why driver Lee – an otherwise lovely chap – is so loud: he’s accustomed to the noise inside the driving cabin of a lorry, where you need to keep your voice high to be heard by your travelling companions. This tiny van is quiet, but after ten years of hauling goods in Guangzhou, his voice is still keyed on the lorry settings.
- So driver Lee, please tell us, why did you stop driving trucks in Guangzhou and came back to Gansu?
- Oh! Very sad story! My wife wrote to me my son was growing up unruly. A boy must have his father to grow up properly, respectful of tradition and of his elders, so I quit Guangzhou and came back to Gansu, which is my birthplace. I am very happy now! And my son is behaving properly!

At the back of the van, nested among our travel bags, is the last of our group, Hong. Road travel doesn’t agree with her, so she has taken some pills to ease the disconfort, but that made her sleepy. It must be bouncy and uncomfortable at the back - the road doesn't have a tarred surface, and it is a sea of mud because of the nonstop rain, but Hong has refused the offer of the front seat, and hasn't complained once.

Through the rain-streaked windows of the van, the mountains appear and disappear behind low grey clouds. It's not heavy rain but it hasn't stopped for days. This is good. It may have made our trip longer and difficult that it needs to be, but it is a blessing, pouring relentlessly over the parched soil of Gansu province.

The five of us have been on the road for about a week now. Claudia and I reached Kunming first, in Yunnan province, where our China office is. We spent a couple of days there, going over plans, budgets, reports – the usual stuff. Then we sat down with Weilin to plan how to bring forward an idea for work - the details of which are not really germane in here - but from that idea we ended up driving around southern Gansu. And I am stuck with driver Lee. My ear relly hurts now.

Longnan is a small district at the southern edge of Gansu province, not far from the northern border of Sichuan, at the foot of the Qinghai highlands, which rise, invisible beyond the edge of the valley, on the west. The city itself is, according to my map, further south along the banks the Bailong river – the same river we have been following for hours while it winds its way south between the sides of this valley. It is a really impressive sight, because it looks like every single mountain of this province has been terraced, by hand, from top to bottom. I did some research afterward and I found out that this has been done during the last ten years – a huge project funded by the Chinese government and by the Asian Development Bank. This section of the usually dry Gansu province is now green from the bottom of the valley to the top of the mountains, and, as I said, it has been raining for days.

The road itself is in really bad conditions. Apparently it is scheduled to be replaced by the Chinese equivalent of a motorway soon – or so driver Lee says - but in the meantime they have given up on maintaining it, but it is the quickest way in or out of the Longnan from Lanzhou. There are no airports, nor there is a railway in this part of the country. For China, that is really remote. The good thing is that there is not much traffic – mainly lorries, loaded high with agricultural produce, which in this season appear to be apples. The road surface is still visible every now and then, but most of it is gone, replaced by mud. Driver Lee is very cautious in negotiating the bends around the rocky hills – the rear wheels of the van slip sideways at anything faster than 30 kilometers per hour. Every hour or so the road climbs to the top of a low hill along the river, and there is a village – two lines of mud huts fronting the road. A few shops, selling what appears to be a range of agricultural implements, building materials and foodstuffs. Lots of wandering donkeys, some dogs and the occasional pig. Not many people – the children are at school and men and women are in the fields, tending to their crops. A few old people sit, sheltered from the rain by an overhang in front of a house. They are all dressed in black: black shirts, black jackets, black trous, black berets of the kind often seen in Europe. Some of them smoke a pipe. Their faces are deeply wrinkled by the harshness of life, but they smile when they see us. Some of them stare, open mouthed – it’s not a place where they see many foreigners. At the edge of each villages there is a tiny mosque.

Yet, the contradition of modern China is there for all to see: the houses maybe made of cheap local materials – mudbricks – but each one of them has a satellite tv dish looking up at the clouds. The roof itself may be a rusty expanse of corrugated iron sheets, but there is a gleaming (or even a rusty) dish on the top of it. And, reflecting the same shape but on the ground, near the front door of almost every house, there is a solar kettle boiler. I am surprised to see so many of these items standing like oversized flowers on the front yard of people's houses - I must have seen thousand of them since this morning. Of course with today’s clouded sky this contraption – which works by reflecting and focusing sunrays on the bottom of the kettle – doesn’t work, but the sheer number of them means that, when the sun is out, lots of tea gets made without burning any coal.

The sky is darkening fast and we are still some distance away from Longnan. The phone works – China has covered almost the whole of its territory with mobile service – so we are able to call ahead and tell our hosts where we are. We are told that they are waiting for us to have dinner together – mighty nice of them, one would think. I am afraid that by the time we get there it will be 9PM – much later than the usual Chinese dinner time of 6:30PM. I ask my colleague to tell our hosts not to wait for us, but it’s no use: of course they will wait. Basic politeness demands it, and – there’s a cultural difference trick – they probably think that we expect them to wait for us. There’s nothing to do if not drive on. Driver Lee crests a hill, and – surprise – the road ahead is blocked. There is a queue of stationary trucks in the middle of the roadway, and ahead what appears to be a passenger bus somehow stuck in the mud. The stop is a welcome relief from the piercing voice of driver Lee: I open the door and step out of the van to stretch my legs and have a fag. All the engines in the queue are off – this could be a long wait. I decide to have a look, and walk up the queue to the bus. The rain is light, and it’s not cold at all. One of the back wheels of the bus got stuck in a rut of the road, and the attempts to drive out of it have resulted in the whole back of the vehicle now stuck deep in the mud. A classic. They’ll need some heavy equipment to sort this out. While I am there, I notice that the passengers of the bus are happily sitting in small groups on the side of the road, sheltering under tarpaulins and umbrellas, sharing food and drinks. Nobody appears to be nervous, or in a hurry - travelling by public bus is a relaxing activity.

I think there is enough room on one side of the stuck bus for our small van to squeeze trough, so I walk back, get in, and I explain to driver Lee – with much gesticulation – that we can go. He seems to be very happy at the idea not to wait there – must be hungry too – so he starts the engine, and off we go. Slowly, we overtake the queue of stationary lorries, reach the bus, and among much honking of horns, waving of hands and other noises, we are through. Driver Lee leans out of the windows and yells something in Chinese. I look back at Weilin, who smiles and says 'He says ‘goodbye friends’.

We’ re on our way again. A few minutes down the road we cross a large tracked vehicle going the other way, obviously on its way to pull the bus out of its predicament.

By the time the sky is dark we reach Longnan. We find our hosts – a young doctor at the local city hospital – waiting for us at the hotel. A quick check-in, then off to dinner – apparently quite a lot of other people are waiting for us. The dreaded Chinese formal dinner.

(1 - end)

Monday, 2 March 2009

archivio (61) Una serata sportiva

Novembre 1991. Sono appena tornato in Ismailia dopo dieci miserabili mesi trascorsi in Italia, nelle colline metallifere fra Siena e il mare. 
Sono tornato in Ismailia a lavorare per una ONG inglese. Mi hanno preso perche' ho esperienza del paese. Se hanno dubbi sulla capacita' di un italiano ad accettare a adottare la loro etica lavorativa non lo danno a vedere.
Mi presento al lavoro il giorno dopo il mio arrivo. Il capo progetto e' una donna. Alza la testa dalla montagna di carte sul tavolo, si alza, mi stringe la mano, mi da' il benvenuto. Mi chiede se voglio un caffe'. Dico si, e mi mordo il labbro, ma e' troppo tardi. Lei stessa si alza e va in cucina (l'ufficio e' in una casa affittata nei suburbi della capitale). Torna con due boccali di plastica pieni di risciaquatura di piatti Nescafe'.
Mi aspetto un periodo di adattamento e di introduzione, ma sbaglio.
"Conosci l'ex caserma della Guardia Imperiale?"
"Quella fuori citta', sulla strada per Embo?"
"Quella. Vi abbiamo installato una clinica di emergenza tre mesi fa quando i Ghimbini sono entrati nella capitale. Ieri la nostra gente la' mi ha mandato questa lista di cose di cui hanno bisogno. Vai in magazzino, fai il carico e portaglielo. E quando torni dimmi cosa ne pensi".
"OK capo"
Sorride, ma non davvero. "Non mi chiamare capo"
Chiudo la bocca, mi ricordo che questa donna era qui da sola a tenere i progetti in funzione mentre le bombe esplodevano, le ambasciate evacuavano, i bianchi fuggivano e i ribelli Ghimbini marciavano sulla capitale, solo pochi mesi fa. Prendo la lista, annuisco e vado. Lei e' gia' concentrata su qualche altra cosa.
Il magazziniere dell'Organizzazione e' un vecchio Ismailita grinzoso con un sorriso grande come una casa. Mi presento, gli dico chi sono e che sono nuovo, gli do' la lista. Si siede al suo tavolino, inforca un paio di occhialoni a fondo di bottiglia e ridacchia fra se' e se' in Amende "Hihihi...troppo lavoro oggi, troppo lavoro per il vecchio Bekke..." si alza lentamente, si avvia verso gli scaffali. Prendo uno scatolone vuoto e lo seguo. Disinfettanti, bendaggi, garze, antiinfiammatori..lo scatolone e' presto pieno, ne prendo un'altro, poi un'altro ancora. Sembra che stia andando a rifornire un pronto soccorso. Antibiotici. Antimalarici. Vitamina A. Reintegratori salini per dissenteria, ancora antibiotici...Aureomicina. Questo vuol dire stafilococchi...quando il carico e' pronto il vecchio Bekke mi dice "Vai a farti dare una macchina"
L'autoparco e' una baracca di ferro ondulato in un angolo del cortile. C'e' una bacheca con numeri di targa, chiavi appese ed un registro. Non c'e' nessuno in giro, ma decido che non ho tempo da perdere. Prendo un mazzo di chiavi, firmo il registro, trovo la macchina, torno da Bekke, carico, firmo il suo registro, mi da' una copia dell'ordine e mi manda via. 

Il posto non e' a piu' di un' ora fuori citta', vicino. Lo scenario dell'altopiano e' familiare. Novembre e' tempo di raccolto: gialli covoni nuovi si ergono accanto alle capanne degli Ismailiti, i campi tosati da poco seccano al sole primaverile. In quasi ogni aia mucche e buoi legati assieme girano in tondo sulle spighe per terra, trebbiano come si trebbia da migliaia di anni. Le donne raccolgono le spighe in mucchi, gli uomini le alzano al vento con pale di legno intagliate a mano. La pula vola via come polvere ad ogni alzata di pala.
Mi scuoto. Ismailia e' bella. Guarda la strada. Stai portando medicine. Accellera. Sigaretta.
Arrivo alla caserma. E' chiusa da un alto muro. Le sentinelle sono Ghimbini, capelli afro, giacche mimetiche e sandali. Kalashnikov in braccio. Vedono il simbolo dell'organizzazione dipinto sullo sportello e mi fanno entrare senza fermarmi. Dentro, grandi spazi. lunghe baracche a dormitorio, a dozzine. Piazza d' armi. Mi guardo in giro, seguo le frecce dipinte a mano verso la clinica. 
Chi sono questi? mi chiedo. dozzine, centinaia di uomini. In stracci. Senza scarpe, tutti con cio' che rimane di una divisa addosso. Prigionieri, ecco cosa sono. Amende. Soldati dell'ex Repubblica Socialista di Ismailia, crollata pochi mesi fa come il Muro di Berlino poco prima, abbattuta dal crollo dell'Unione Sovietica, dallo scontento interno, dalla poverta' e dai Ghimbini, confermatisi guerrieri duri come i loro antenati.
Raggiungo la clinica, parcheggio accanto alle altre macchine dell'organizzazione. Ci sono due infermiere, una inglese ed una irlandese, piu' qualche civile Ismailita che lavora per noi. Una lunga fila di prigionieri aspetta fuori, snodandosi attorno alla baracca, tentando di tenersi all'ombra. Vedo bendaggi sporchi di sangue, intravedo moncherini coperti di garza. Un paio di guardie tengono d'occhio, ma tutti sembrano molto rilassati e tranquilli. 
Non faccio perdere tempo a nessuno, scarico e porto dentro il materiale. L' irlandese ha i capelli rossi ed e' grassottella, ma quando mi stringe la mano mi fa quasi male. Rapidamente controlliamo la consegna, firma, ciao, ci vediamo piu' tardi. 
Esco, risalgo in macchina, guido verso l'uscita, piano. Attraverso la piazza d'armi. Prigionieri ovunque. Mi rendo conto che sono tutti ufficiali e sottufficiali, non vedo nessun soldato semplice. Improvvisamente vedo qualcosa muoversi in un angolo della vasta piazza e mi fermo a guardare meglio. Hanno teso uno spago fra due baracche, e stanno giocando a pallavolo con una palla fatta di stracci. Ma si muovono in maniera strana. Guardo meglio. Due sono senza una gamba, saltellano su quella rimasta. Altri hanno un solo braccio. E c'e' uno seduto per terra, si muove sulle mani, rapido come un ragno, va sotto la palla, la colpisce. Non ha gambe.
Non resisto, me ne vado. Torno in citta'. 

Arrivo, riferisco alla capo. 
"Cosa ne pensi?"
"La clinica va bene, le infermiere sanno il fatto loro. I prigionieri non hanno niente da fare. Quando li lasceranno andare?"
"Chi lo sa? erano ufficiali, politicamente indottrinati. Vorranno essere sicuri di consolidare il controllo prima di lasciarli andare".
La guardo negli occhi. Difficile, feriscono lo sguardo da quanto sono azzurri. "Senti, ho visto che tentano di fare sport, giocano con palle di stracci come i bambini di strada. Potremmo dagli qualche palla vera?"
"Mmm...non vedo perche' no"

Passo il resto della giornata a capire come funziona l'organizzazione. Ragioneria, contratti, logistica, progetti, personale. Il tempo vola.
Alle cinque esco e vado in citta'. Se c'e' una macchina libera ho il permesso di usarla, la nafta e' a mio carico.
Trovo il negozietto dove ricordavo che fosse. Articoli sportivi, fatti in Cina. Compro una rete e due palle da pallavolo, una palla da calcio vera e una pompa a mano. Poi, sentendomi molto stupido, ritorno alla prigione. Arrivo poco prima del tramonto. Le guardie fuori sono le stesse e mi fanno entrare senza dirmi niente. Vado direttamente dove avevo visto che giocavano. Non c'e nessuno, ma c'e' lo spago. Ci vado sotto e lo guardo da vicino: strisce di stracci annodate. Torno in macchina, prendo la rete nuova che ho portato: e' un affare di nylon verde, niente di speciale ma regolamentare. Torno sotto lo spago, salto, lo afferro a due mani e lo strappo giu'. Poi procedo ad appendere la rete. E mi rendo conto di avere fatto una cosa stupida: non arrivo alla grondaia dove era appeso lo spago, e non ho scale...qualche prigioniero comincia a fermarsi per vedere cosa sta facendo questo stupido ferengi
Prendo la macchina, la parcheggio sotto la grondaia, salgo sul cofano, annodo la rete, sposto la macchina, annodo l'altro lato. Levo la macchina da mezzo i piedi. Che polvere. Sto facendo un rodeo fra le baracche, tutto da solo. Scendo, annodo la rete sotto, la tendo. Faccio qualche passo indietro, guardo. Va bene. 
Prendo la palla dalla macchina. Sono in jeans, scarponcini e camicia. Vado sotto rete, mi giro, alzo la voce "Chi vuole giocare?"
Ci sono una dozzina di prigionieri intorno. Uno si avvicina. Non e' Ismailita, nonostante abbia la divisa con le insegne dei carristi, seppure a brandelli. E' sudanese. Si vede dalla faccia, dal colore della pelle, dalla statura e dalle cicatrici tribali. Mi guarda, in perfetto inglese mi chiede: "Perche' stai facendo questo?"
"Perche' no?"
Gli passo la palla. Lui la prende al volo, la stringe fra le le mani, con un colpo di polso la fa roteare sul dito. Un sorriso bianchissimo gli si allarga sul volto.
"Giochiamo"
In pochi minuti abbiamo fatto le squadre. Con mia sorpresa gioco anche io. Avevo creduto di dar loro la rete ed andare, ma gli Ismailiti non accettano la carita' cosi' facilmente. Voglio che giochino? devo fargli vedere di essere in grado di farlo io stesso.
Ringrazio gli anni al liceo, quando il prof di educazione fisica faceva giocare invariabilmente solo a pallavolo perche' era un fissato...io la odiavo, all'epoca ero gia' un giocatore di basket...ho giocato a basket per quindici anni...comunque a pallavolo me la cavo. E meno male. Il sudanese non mi risparmia. Ha un alzatore con una gamba amputata sotto il ginocchio il quale gli mette la palla a filo di rete senza neanche guardarla. Il sudanese arriva da dietro raccolto come il leopardo, si alza, si stende, schiaccia come un martello. La palla alza nuvole di polvere da terra. A fare muro siamo io e un Ismailita coi baffi. Lui ha una mano sola, l'altro braccio gli manca dalla spalla in giu. Ma salta come un grillo, e con tre mani muriamo il sudanese efficacemente. 
La mia squadra ha il tipo senza gambe: sorride come un ragazzino a giocare con la palla vera. Ha il disotto dei pantaloni imbottito con stracci, si muove sulle mani, braccia gonfie di muscoli, va sotto i pallonetti, alza bene.
E' una partita vera: nessuno risparmia nessuno. Il sudanese ed io siamo gli unici ad avere tutti gli arti. Si suda, si grida, si combatte sotto rete. Mi alzano la palla, e dopo un paio di tentativi mosci mi ricordo come si schiaccia, e ci prendo gusto. L'altra squadra ha un tuffatore incredibile, arriva alle palle piu' lontane. Non ha le mani, colpisce di avambracci, giunti ai moncherini dei polsi, come se pregasse. Ma ha un sorrisone in faccia. Giochiamo fino a che fa buio. Vinciamo, la folla esulta. La folla?....mi guardo intorno: sembra che ci sia tutto il campo di prigionia a vedere la partita.
Suona la chiamata al rancio serale per i prigionieri. Do' loro le altre palle che ho portato, saluto, strette di mano, pacche sulle spalle mi piovono da tutte le parti. Il sudanese mi mostra il pollice alzato. Le guardie mi fanno segno di andarmene. 

Mi sono divertito moltissimo.


Thursday, 26 February 2009

Philip José Farmer, 1918 - 2009

Avevo una ventina d'anni quando, rovistando fra gli scaffali etichettati 'fantascienza' nella semioscurita' nel retro della libreria Lapaglia mi trovai fra le mani un volume edito dalla Nord: Fabbricanti di universi. Lo presi, e non ne tolsi il naso per le ventiquattro ore successive. Quello fu il mio primo incontro con Philip Jose' Farmer, autore di FS avventurosa, immaginifico, magnifico, pieno di sorprese. Tornai presto a cercare altre cose col suo nome. Scoprii che, primo fra gli autori americani della sua generazione, aveva un punto di vista molto originale su cose come religione e sesso, ma queste cose passavano in secondo piano dietro alla sua immaginazione, e alla capacita' di creare storie avventurose ed impossibili da mettere giu' fino alla conclusione. Presto cominciai a leggere la serie del Mondo del Fiume, dove i personaggi sono tutti gli esseri umani che siano mai vissuti sulla terra, fra i quali PJF muove gente realmente esistita come Samuel Clemens e Richard Burton, perfettamente credibili in un'ambientazione tanto colossale ed ambiziosa da lasciare a bocca aperta. 
Seguii Farmer per molti anni, sempre con piacere. E conservo tuttora quei libri, anche se da allora sono riuscito a leggerli in originale. 
Ieri PJF se ne e' andato, presumibilmente per raggiungere il mondo del fiume, e risalirne il corso infinito con Clemens e gli altri. Si divertira' sicuramente. 
Mi manchera'.

 
 

Monday, 23 February 2009

No, il walkathon no.

Dovrei saperle queste cose, e intanto ci casco sempre. Domenica la scuola della piccola_di_KT aveva organizzato un walkathon, una camminata di beneficienza. Gli introiti al 25% a qualche organizzazione caritatevole, e il 75% per la scuola stessa, che dice di averne bisogno per le infrastrutture ecc ecc. Che poi non ho motivo di dubitarne: e' una buona scuola, per gli standard locali. Anche se e' controllata e diretta esclusivamente da donne. Non si puo' avere tutto. 
E insomma, in un periodo remoto dell'anno scorso, preso alla sprovvista e probabilmente anche distratto, avevo dato il mio assenso alla partecipazione al walkathon. E me n'ero prontamente dimenticato, ovviamente. Immaginate la mia faccia quando giovedi' mi arriva l'email della scuola con tutti i dettagli sull'organizzazione (i partecipanti saranno divisi in gruppi A B C D e partiranno scaglionati ad intervalli di 15 minuti), sul supporto (i boy scout saranno disponibili lungo il percorso per aiutare con l'orientamento), per poi passare agli ordini (e' assolutamente necessario che i partecipanti tengano addosso durante il cammino il numero che sara' loro attribuito) e alle minacce (si raccomanda di non abbandonare il percorso designato perche' l'assicurazione NON coprira' alcuna deviazione). Per poi passare alla descrizione del 'fun day' successivo alla camminata, a scuola: musica, canti, cibo, bevande, zucchero filato, pesche di beneficienza e cosi' via'. 
Mentre leggevo questo orrore di tipo anglosassone sentivo un brivido giu' per la schiena. E come se non bastasse, avrei dovuto essere li', pronto ad essere numerato e pungolato alle otto del mattino di domenica. 
Sono pazzi. Ed infatti, la domenica mattina ho invocato il mio normalmente ignorato ius domini, e mi sono rifiutato non solo di andarci, ma financo di alzarmi dal letto. 
- No, andateci voi, andate. Divertitevi.
- Non puoi non venire! Avevi detto che avresti camminato anche tu!
- Mi sono ricordato che odio camminare. Andate, andate. Io penso al pranzo. 
E cosi' e stato. Bella sensazione fare il capofamiglia, evitare la panzata di folla, la camminata, e dormire fino alle 11.  

 
 

Thursday, 19 February 2009

Wrestling with the PC (3)

Il rischio c'e' che l'argomento diventi tecnico. Ma e' un rischio infinitesimale, a me i tecnicismi mi danno fastidio, come i broccoli. Pero' la procedura, ah la procedura e' la parte migliore. Quella che in inglese si chiama the process. Suona come un film con James Stewart. Prima di accingermi all'opera accendo la memoria a lungo termine. Il cervello. Il mio. Che' nel corso degli anni da quando questi affari sono diventati indispensabili, non e' la prima volta che mi capita di doverne aprire uno, ergo, conviene ricordarsi come fare e cosa non fare. Una vaga memoria mi dice che prima di installare questa scheda devo togliere quella vecchia, e disinstallarne il software. Mi sembra logico. Solo che il PC una scheda come questa non ce l'ha. Quelle poche capacita' grafiche che possiede sono integrate, cioe' costruite nel PC stesso, non in una scheda a parte. Hmmm...
Googliamo. Da varie ed oscure sigle sul pezzo di silicone scopro marca e modello della scheda. Incrociando la googlata fra queste informazioni e la stringa 'come installare', con un paio di click sono nel posto giusto: un forum di discussione dedicato a questo genere di cose. Perche' qualcuno che questa operazione non solo l'ha gia' fatta ma l'ha anche descritta c'e' sicuramente. E infatti c'e', perfino la scheda e' uguale. Mi appunto la procedura - a matita - preparo il tavolo operatorio (che poi e' il tavolo da pranzo coperto di giornali), tiro fuori un cacciavite piccolo. Poi vado a fumarmi una sigaretta alla finestra per stimolare la concentrazione, prima di procedere. Non arrivero' a dire che il momento e' solenne, perche' sarebbe una minchiata turning.gif  
E comunque. Chiudo tutti programmi, poi vado nel Control Panel, System, Hardware. Trovo la linea corrispondente alle capacita' grafiche esistenti, e la disabilito. Poi spengo il PC e lo faccio ripartire direttamente nel BIOS (che si fa tenendo premuto Del mentre il PC parte - nel mio). Questo e' il menu' di base del computer, dove si interviene solo in casi come questi. Cambio un paio di settaggi come istruito dalle mie note, poi spengo tutto. Sposto la scatola stessa del PC da sotto il tavolo, stacco tutti i cavi e cavetti da dietro e porto la scatola sul tavolo. Gosh quanta polvere. E' sempre un problema, la polvere. Io ODIO la polvere. Svito le due vitine dietro che lo tengono chiuso, tolgo il pannello ed ecco che the innards, le interiora sono rivelate. O meglio, la polvere che le ricopre. Qui urge intervento. Vado a prendere l'aspirapolvere e UUUUUUUUUUUUUUUUUUUHHHHHHHHHHHH. 
Fatto ora posso lavorarci. Non che ci voglia molto. Con le quattro pagine di manualetto che venne col PC individuo lo slot, o come si dice in italiano, dove va la scheda. La inserisco gentilmente ma decisamente fino a quando non e' entrata tutta con un soddisfacente 'twunk'. Il piu' e' fatto. Ora si tratta di riconnetterlo e riaccenderlo. Per scaramanzia lo riconnetto ancora aperto, giusto in caso che non funzioni. 
E infatti lui, esso, parte, ma che abbia infilata una scheda nuova dentro non se ne accorge proprio. Anzi, mi dice che non ha capacita' grafiche e mi fa vedere tutto al minimo della capacita' colori e della grandezza di schermo. Per forza, la sua gliel'avevo disattivata io prima, e quella nuova e' come se non ci fosse. Qui ci vuole un'altra sigaretta. 
Fuori dalla finestra, molto in basso, Electric Road e' sempre li', i fanalini dei taxi blinkano, rassicuranti. 
E' chiaro che o e' la scheda ad essere fasulla, o c'e' qualche conflitto di software ad un livello cosi' profondo che non ho speranza di trovarlo da solo. Quindi spengo, tolgo la scheda, richiudo, riattacco tutto e rimetto tutto com'era prima. Devo riavviare almeno tre volte, ma il mio PC (beddu di papa') si riavvia di solito in trenta secondi, quindi no problem there. La scheda gliela riportero' al bottegaio domani. In tutto questo, non so come, Google Earth funziona meglio di prima lo stesso.
Mi viene in mente Elwood, e quoto: The Lord works in mysterious ways.



Wrestling with the PC (2)

Dov'ero rimasto? Ah si. La graphic card, scheda grafica. A Hong Kong c'e' il mercato di computer usati (o pezzi thereof), ma e' a Sham Shui Po, dal lato di Kowloon, nemmeno tanto vicino. Ma chi ci va mai, dal lato di Kowloon? E' come abitare a Manhattan e considerare l'idea di andare nel New Jersey. O le stesse implicazioni semantiche di 'south of the river' quando lo si sente dire a Londra. Ci deve essere sicuramente una soluzione migliore. Poi mi ricordo del negozio di computer di quartiere, all'angolo di Oil Street. Che piu' che un negozio e' una bottega artigiana. Il tipo vende pezzi di computer e accessori, ma sopratutto li ripara, li aggiorna, cambia componenti, ogni tanto mette il cartello 'torno subito' e sparisce, sicuramente ad occuparsi della clientela corporate nella zona. Comunque sia, ci passo. Il posto e' piccolo e lo spazio e' poco, i volumi invasi da scaffali colmi di pezzi di elettronica e di scatole colorate con sigle misteriose. Per terra, rimasugli della sua lotta col computer - viti, tracce di vita silicea. Per rompere il ghiaccio mi compro un mouse - che quello vecchio e' caduto per terra cento volte e ogni tanto occorre fargli il trattamento alla Fonzie per rifarlo funzionare. Poi gli racconto del mio predicamento, e gli chiedo se per caso ha una scheda AGP. Non ce l'ha (me l'aspettavo) ma mi dice che se voglio, me la puo' ordinare, che qualche magazzino sicuramente avra' ancora di queste cose vecchie. Gli chiedo quanto tempo ci vorrebbe, e lui, come ispirato (funziona!) mi dice 'Unless you want a second hand one'. Cerrrto che me ne va bene una di seconda mano. E voila', ne tira fuori una da un cassetto, me la fa vedere, mi istruisce su come trovare in rete il software necessario e me la da. 
'E se non dovesse funzionare?
'Me la riporti'
La sera stessa, a casa, quando le ombre della sera sono gia' abbondantemente calate su Electric Road, mi accingo all'opera. 
'Chiamatemi Fran-ken-stin'

Wrestling with the PC (1)

Il computer di casa e' relativamente nuovo, ma non un fulmine di guerra come capacita' grafiche. Non essendo un gamer dedicato, non ne ho mai avuto bisogno. Il PC stesso me lo feci costruire l'anno scorso al computer centre di Wan Chai: scelsi un negozio a caso delle centinaia che ci sono annidati nei cunicoli dell'edificio, con la signorina discutemmo le specifiche che avevo in mente (cose noiose come la RAM, il processore, la capienza del disco fisso), ci accordammo sul prezzo, dopodiche' mi disse 'Torna fra due ore. Io mi feci un paio d'ore di passeggiata lungo i negozi di mobili cinesi di Johnston Road, e quando tornai era li' pronto, assemblato nei meandri oscuri del computer centre e consegnato al negozio. Me lo portai via cosi' com'era, un paio di giri di cordino di nylon a fare da maniglia. A casa vi attaccai i pezzi che avevo gia' - tastiera, schermo, stampante, connessioni - e voila', computer nuovo.  

Ora pero' mi sono reso conto che la capacita' grafica non e' all'altezza di un programma come Google Earth. Oh, per funzionare funziona, ma si muove lentamente e a scatti, ben lontano dalla resa del MacBook della figlia_grande_di_KT, dove GE funziona come i suoi creatori intendevano. 

Quindi negli ultimi giorni ho passato un po' di tempo ad esaminare i manuali delle interiora del PC, e chiedendo a Google la strada che porta a gente che ha avuto simili esperienze. Risultato, devo installare una scheda grafica - un pezzo di silicone verde con su vari microprocessori, connessioni, e pefino un ventilatorino tutto suo, per liberarsi del calore che genera. Il problema e' che, mentre il PC ha la presa per una simile scheda, questa deve essere di un tipo specifico - AGP - che non e' piu' il top of the range delle schede. Ergo difficile da trovare nei negozi, specialmente a Hong Kong, dove vecchio e' sinonimo di inutile e senza valore, e solo il nuovo conta. Ma ovviamente un componente simile era esso stesso top of the range non piu' di diciotto mesi fa, quindi KT, il quale non e' prono ad isterismi consumeristici si e' messo alla caccia di una scheda AGP, anche di seconda mano. Che' Google Earth val bene una scheda. 
 

Tuesday, 17 February 2009

Google Mars

Google Earth e' una di quelle cose che quando uno scrittore l'immagino' nelle pagine di un libro a me venne immediatamente voglia di averlo. Fast Forward una dozzina di anni e BANG, esiste. 
Ma andiamo con ordine. Prima Neal Stephenson lo mise, chiamandolo solo 'Earth', nel suo seminale Snow Crash, e qualche anno dopo lo zio Google si compra un'idea simile appena sviluppata, la trasforma in Google Earth, e la mette a disposizione di tutti. Google Earth (o GE, come lo chiamano gli amici) non e' cosa che interessi a tutti. Bisogna essere appassionati di geografia, storia, scienze, del mondo che ci circonda, di mappe, me fondamentalmente occorre l'interesse negli esseri umani, e in quello che essi fanno con e al mondo. E dalla versione corrente (GE 5.0) anche di Marte. Non mi dilungo, perche' se GE non ce l'avete gia' vi sto annoiando...ma poter volare su Marte cosi com'e', anche senza trovarci John Carter non e' affatto un disappunto. 
  

Monday, 16 February 2009

Libri volanti

Di questi tempi, sara' per il monsone, sara' per un periodo meno pieno di lavoro del solito, mi diletto a leggere piu' del solito ( ani_biggrin.gif ). Naturalmente KT non ha pretese culturali quando legge. Anzi: l'idea stessa di un libro culturale gli provoca una vaga repulsione, come avere in bocca un sapore di metallo marcio. Quest' analogia e' presa direttamente da Idoru, di William Gibson. Sulle orme del Cyberpunk, di cui Gibson e' stato dichiarato ufficialmente responsabile, Idoru e' un viaggio elettrico fra lo stardom moderno e gli ambienti giapponesi bagnati di pioggia e neon, sia virtuali che reali, che egli creo' per il primo suo romanzo del genere, Neuromancer. Uno stile sincopato fra virtualita' reale e personaggi da favola visti con gli occhi della quattrodicenne Chia McKenzie, fan del gruppo pop Lo/Rez alle prese con l'idea che il suo idolo Rez voglia sposare una donna virtuale, una idoru, fra mafiosi della Kombinat russa e la Citta' Murata virtuale dei teenager giapponesi, vale sicuramente la pena: gran libro. 

Naturalmente non leggo un libro alla volta: ne tengo alcuni aperti assieme per terra accanto al letto, altri sul divano, e altri in borsa: non si sa mai cosa mi senta di leggere. Finito ieri, di nuovo, History of Hong Kong, di Frank Welsh: visto che ci vivo mi piace sapere la storia del posto. Piacevolmente cross-referenced, vi ho trovato lo stesso Lugard, qui governatore agli inizi del novecento, che anni prima usava la mitragliatrice Maxim contro i seguaci del re del Buganda nell'opera seminale The Scramble for Africa di Thomas Packenham, ricostruzione accuratissima e non apologetica dei trent'anni alla fine dell'ottocento che videro il Continente penetrato e diviso fra le cancellerie e i ministeri d'Europa. Gran ritratto di Leopoldo del Belgio, re e sfruttatore, insieme con tantissimi altri personaggi. Stanley, gallese finto americano, Brazza, italiano finto francese, Emin Pasha', tedesco finto sudanese...per tacere di 'Cinese' Gordon, generale inglese e anima tormentata, la cui testa rimase a Khartoum. Non perdibile, cameo del giovane Winston Churchill, assistente del Segretario alle Colonie, il quale annotava ai margini di un rapporto ufficiale del governatore dell'alto Niger: Si invita l'estensore ad adattare il linguaggio in uso nei rapporti ufficiali: coloro non familiari con il gergo del ministero di Sua Maesta' potrebbero interpretare che il vostro incarico consista nello sparare agli indigeni e rubar loro le terre'ani_biggrin.gif

Cos'altro ho sulla stufa? Ah si: Chickenhawk, di Robert Mason. Gran libro: il Vietnam da un elicottero, fra dubbi, morte e la mancanza totale di logica tipica dei militari di qualunque nazione. Si fa leggere tutto d'un fiato. Nella borsa del portatile, appoggiata qui accanto a me in attesa della pausa pranzo, Donnerjack, ultimo romanzo del mai troppo compianto Roger Zelazny. Fra Virtu' e Verite' (mondo virtuale e mondo reale) si aprono porte inaspettate: l'amore fra gli abitanti dei due regni diventa occasionalmente e impossibilmente fertile, e chi ne risulta dovra' capire non solo come, ma anche perche', e cosa c'entri il Signore dei Campi Profondi, il quale divenne in esistenza l'istante che la prima cosa vivente mori'. Fra il castello in Scozia abitato da fantasmi ai quali piace odorare il whisky, il treno virtuale chiamato Il Babbuino d'Ottone che si crea la ferrovia fra i piani dell'esistenza al ritmo di Dixie, e umani diventati esseri mitologici per le intelligenze artificiali, John D'Arcy Donnerjack prima, e suo figlio Jay dopo attraversano le pagine come Mizar, il segugio fatto di pezzi di ricambio e moquette. Gran libro, grande scrittore.

Leggere

Avevo quattro anni quando mia mamma, stufa di aspettare che si facesse tempo di mandarmi a scuola, mi insegno' a leggere Topolino, seduti assieme sul divano. Non l'avesse mai fatto: all' asilo la maestra, torturatrice, mi mandava ogni tanto col libro in mano giu' per il corridoio pieno di echi fino in seconda classe, dove la sua collega mi faceva leggere davanti a tutti, per farli vergognare. Oh, come me la fecero pagare, nei corridoi, quegli ignavi. 

Ricordo ancora, ragazzino, le occhiataccie delle mie zie quando, alla domanda 'che hai fatto con i soldi che ti abbiamo regalato?' rispondevo che avevo comprato libri. Non lo capivano, non sembrava loro una cosa normale. 'Ma vai a divertirti, comprati vestiti, vai al cinema invece'. Come avrei potuto spiegare ad esse, gran lavoratrici e amabilissime zie, ma profondamente chiesastriche ed ignoranti di tutto cio' che non fosse la loro immediata vita, che non c'era divertimento piu' grande, durevole e delizioso che navigare con Yanez verso Labuan, o cacciare lamantini fra le mangrovie vicino a Maracaibo. 

La stessa tristezza - lieve ma certa - quando penso alla scuola, al ginnasio: ogni classe aveva un armadio pieno di libri, romanzi e saggi. Mi diedero la chiave ed un quaderno per scrivere chi prendesse cosa, e quando lo ritornasse. Alla fine dell'anno, forse in tre-quattro, su quasi trenta, avevamo preso in prestito libri per leggerli. Tutti gli altri leggevano solo quello che dovevano leggere. Il liceo fini' con me e pochi altri che avevano letto tutto, tranne Manzoni. Perche' si doveva leggere. 

Felicita' fu lavorare in libreria per qualche anno, ogni anno, a luglio e agosto, e parte di settembre fino all'inizio della scuola. Anche se il grosso del lavoro erano i libri di scuola, gli scaffali, la polvere, l'odore, e sopratutto il potermi portare a casa qualunque libro, leggerlo in una notte, e riportarlo l'indomani. A quel punto pensavo fosse normale che fossimo in pochi a leggere, e che non avessi nessuno con cui parlare dei libri che mi piacevano. E normale lo era.

Immaginate lo scioccamento quando mi resi conto, anni dopo, che ci sono paesi dove tutti leggono. Ricordo ancora la mia prima volta nella metropolitana di Mosca, un inverno di tanti anni fa: fra l'architettura da fare storcere il collo, le teste di tutti i russi col colbacco di pelo, ma proprio tutti, o il fatto che ognuno di essi uomini e donne soldati e civili fosse immerso in un libro, un'intero treno di pendolari che leggeva. Non seppi che pensare, mi ricordo pero' che il freddo dell'inverno russo, la' sotto, non c'era. 

E poi la perfida Albione. Tutto quello che volete, ma un mercato immenso, qualita' media elevatissima, un sacco di gente in fila alla cassa nelle librerie, tutti i giorni, perfino nella pausa pranzo. Piu' il loro sistema di biblioteche pubbliche rionali: posti bellissimi e luminosi, accoglienti e pieni di tutti i libri piu' recenti, e posti per sedersi a leggere, o una tessera magnetica per portarseli a casa. Gratis. E i treni dei pendolari, il 7:13 per Charing Cross? Come a Mosca. Senza i colbacchi. 

A volte penso che, furbi come ci sentiamo, noi italiani in realta' siamo stupidi.

Il mio amore era nera e cromo

Siamo rimasti insieme otto anni. La trovai in un angolo scuro del concessionario, con 17.000 chilometri, una patina di polvere, e una statuetta come quelle sul cofano delle jaguar saldata sul parafango davanti. Mi ricordo come mi si aprirono gli occhi. Era stata di qualcuno il quale se ne era andato a viviere a Durban. 250 chili, 2 cavalletti, 2 enormi cilindri, 2 borsoni neri, sella effettivamente omologabile per guidatore + tre ragazze, oppure per tre guidatori maschi, con una sola patente e un solo casco fra tutti e tre. Che ti si rallegra il cuore a girare l'angolo di una delle stradine del centro di Marina di Ragusa alle tre del mattino e trovarsi davanti un posto di blocco con almeno venti carabinieri e veicolame adeguato. Uno spiegamento di mezzi cosi' e' solo perche' cercano qualcuno che conoscono, non per fermare motoristi...
- ...E la moto a chi e' intestata?
- a me, brigadiere.
- ma guidava il suo amico.
- con la pancia che ha se sta seduto davanti e' meglio, brigadie'.
- e di patente c'e' solo quella del suo altro amico, giusto?
- si. e abbiamo un solo casco in tre. e siamo ad agosto.
- un solo casco? questo e' grave.
- e' vero, brigadiere. e' grave... e' un caso di emergenza. Le sembriamo gente che si diverte ad andare in giro in tre in moto di notte? Eravamo a Siracusa e si e' rotta la macchina del mio amico. Dovevamo tornare alla Salina, era tardi, non abbiamo avuto scelta...e lei lo sa che la Guzzi mille tre persone le porta in sicurezza.
- rimane un reato. E non condivido la sua opinione sicurezza sul motoveicolo per tre adulti e 200 chilometri da fare di notte.
- Ma scherza, brigadiere? E la squadra nazionale di acrobazia in moto dell'Arma? Quelli ci salgono in dodici, fanno la piramide e camminano su una moto come questa...
- Va bene. Dodicimila lire per guida senza patente, e ve ne potete andare. 

Appena la comprai cominciai subito a passarci un sacco di tempo assieme. Non le diedi mai un nome proprio, ma pensavo a lei come la Ragazza. Non volevo una moto per l'estate. Volevo una moto invece dell'auto. Dopo qualche mese avevo non solo trovato il meccanico filosofo e appassionato di Guzzi che tutti dovremmo avere, avevo anche sistemato la frizione, cambiato le marmitte con le Lafranconi (quelle con l'elichetta), e avevo comprato in gran segreto il tendicatena della distribuzione, inventato da qualche appassionato in Olanda, importato in quantita' limitate da un brianzolo, e gravemente disapprovato dalla Casa. Andavamo ovunque insieme. In altre parole ogni giorno mi portava al lavoro e mi riportava a casa, non lontano ma abbastanza da arricriarmi seduto all'aperto, muovermi sopra il mondo e vederlo fluire.
(ci vuole un abbigliamento adatto, altrimenti diventa una cosa miserevole, senti freddo e spesso ti sgocciola dietro giu' per il collo)
Con la ragazza vennero stivali, giaccone, guanti. Tenevo una valigia sola montata da un lato, dentro tuta da pioggia, triangolo e coprimoto rosso di nylon pesante. Cambiai i carburatori con quelli da 42. Raramente passavo i 150 all'ora: a quella velocita' rombava tranquilla in autostrada per le otto ore che ci volevano per salire da Catania a Roma. Con i 42 si poteva spingere fino a 180, ma senza borse e senza passeggeri.


Ci fiondavamo a Roma spesso con mia comare Anna in quegli anni. Principalmente per andare ai concerti, ma avevamo anche amici a Torpignattara ani_biggrin.gif No davvero. Marta non mi ricordo cosa facesse, assegnata allo staff della onorevole ministro. Mi ricordo il suo accento romanaccio ('KT, non ti fare fregare: il romanesco non esiste piu') quando un giorno spunto' arrivando dal lavoro imitandola: marcio' in casa sua agirando il braccio alla suffragetta, gridando 'Dio lo Vuole!' che si capivano le maiuscole. 

Anna: Ma davvero ha detto cosi? la Ministro?
Marta: dovevi vederla! c'erano i giornalisti all'entrata di palazzo coso, ma una dura non si fa impressionare, e' passata e quando e' arrivata in cima ai gradini si e' girata, ha alzato la mano, 'Dio Lo Vuole', ed e' sparita dentro...


Non mi ricordo per quanti sforzi faccia, di ricordarmi quale numero fosse questa particolare crociata. In quegli anni il Vaticano teneva ancora il catalogo aggiornato delle crociate ufficiali dalla prima ai giorni nostri. Quando Acri cadde ampliarono il catalogo delle crociate: la Reconquista, l'asservimento germanico degli stati Baltici pieni di brutti paganoni pelosi che sconoscono Dio e adorano gli alberi , l'introduzione della Civilta' Cristiana fra le Popolazioni Pagane delle Americhe...ai tempi di questo viaggio in moto avevano finito i soldi e chiuso questi uffici costosi e poco utili*. Poi Craxi fu votato al governo, anche grazie ai voti di tutta la Sicilia fino ad allora saldamente dicci', si mise gli stivali, fece l'otto per mille...
Io me ne andai in Africa, abbastanza disgustato da tutta la faccenda. Ma questa e' un'altra storia...

[MODE READ AGAIN. SHAKE HEAD. BE REPENTANT=ON] 
Scusatemi, divago a livelli. Sono questi fiorellini leggeri e leggerissimamente appiccicosi. Wow.
Funzionava cosi': partivamo dopo il lavoro da Catania, risalendo la costa lungo l' autostrada che va a Messina, a un'ottantina di chilometri. A sinistra l'Etna e' un gigante scuro, e vicino. Fuma leggero contro il rosso del tramonto. 
Passare sotto la rocca di Taormina erano due galleria veloci. Non si vedeva niente del movimento che sapevamo esserci a tutte le ore nella cittadina. Poi, galleria dopo galleria, montagne a sinistra e mare a destra, spiagge bianche di ciottoli sotto. Presto davanti a destra si intuisce la fine della Sicilia, e oltre il mare si vede, scuro e alto sull'acqua, l'Aspromonte. L'autostrada gira alta sul monte intorno a Messina, poi un ramo se ne stacca e precipita' giu, diventando presto un viale che scende verso il porto. I traghetti di Messina sono tanti, frequenti e veloci: forse venti minuti per la traversata vera e propria. Tempo per un caffe' ma il la macchina del caffe' del ponte passeggeri del Caronte la lubrificano con l'olio che sgocciola sul ponte veicoli durante la traversata. Lo bevono solo i forestieri e i turisti. 
Si romba giu' dalla rampa a Villa. Ero parcheggiato dietro sulla nave, c'e' gia' la colonna di macchine sulla strada fra i mare e il terrapieno della ferrovia che porta all'uscita delle darsene del Caronte. Se avessi voluto fare la fila mi sarei tenuto la macchina. Entro largo a sinistra della fila, che tanto non viene nessuno, apro la seconda di una manopolata e passo una dozzina di macchine. Come un elastico, chiudo il gas e rallento verso il semaforo rosso. Con una tallonata metto in folle. Rallento, due dita sulla leva del freno. La Ragazza naviga in avanti senza tentennare, mezza tonnellata di massa appesa al disco davanti, quello singolo. Luce verde. Tiro la frizione, do un calcetto verso l'alto al bilancino, do' gas una volta per fare alzare i giri al motore, e ci ributto dentro la seconda. Senza esitazione la Ragazza si avventa, danzando ai lati della scivolosa doppia linea bianca. C'e' la galleria. Chiudo il gas e tiro a me il manubrio sinistro ad altezza cintura. La Ragazza si piega di lato, una ruota alla volta, lemente, cambiando direzione sul posto. La assecondo che si rialza spostando la posizione del culo e siamo gia' nel tunnel, cambio di direzione 90 gradi. Mi viene il ghigno: saranno cinquanta metri di galleria sotto il doppio binario della linea per il nord, la fila di macchine che viene al traghetto ferme al semaforo all'uscita della galleria stessa, perche' due camion assieme questa curva non la possono fare, la banchina e' troppo vicina. Apro due terzi del gas alla seconda marcia e i bassi delle marmitte sono come un crescendo di organo nel tunnel. Schizziamo fuori dalla galleria al centro di un'onda concentrica di suono che si divide in filamenti, si avvita su se stessa e si perde fra gli alberi della piazza della Stazione. Imbocchiamo il viale e in fondo c'e' lo svincolo dell' Autostrada del Sole. Il cartello dice solo SALERNO 621. 
Oltre il cartello, l'autostrada si arrampica su per le Calabrie, fra i boschi e il mare.

Sostegno fatto. Puf puf. Dov'ero?

Ah si. L'autostrada sale sull fianco delle montagne, a picco sul mar Tirreno. Direttamente a ovest, invisibili, le Eolie. Sotto il viadotto, in basso in basso, Scilla, e poi Fiumara. Poi l'autostrada piega bruscamente ed entra nell'interno. Ormai e' notte. Presto troviamo l'agip dove ci fermiamo sempre. Faccio la fila dietro le macchine, a motore spento. Con Anna dietro e il carico la ragazza si fa spingere in avanti con un lavoretto leggero di punta-tacco nonostante che mezza tonnellata di peso ci sia tutta. La California non e' uno stupido chopper ad imitazione dell'Harley Davidson. Far from it, come dice Morpheus. Le Harley si guidano appesi al manubrio, per non cadere all'indietro. Prova a fare cosi' alla Ragazza, e vedi cosa ti fa. La ruota davanti si alza e la moto non si fa sterzare piu' finche' non la smetti di fare il cretino e ti siedi come ti pare ma col peso in avanti. Questo perche' il telaio della Cali II, come tutti i guzzoni mille, e' primogenito di quello del V7 Sport, tubazzi di acciaio che non si scompongono facilmente. Prova a mettere una Harley a passare la notte sull' elastico fra i 120 e i 150 e vdi cosa succede. Se Dio avesse voluto che le Harley andassero veloci avrebbe dato loro dei freni decenti, dice il proverbio. Ma (Coro)Dio c'ha la Ducati
24 litri e' pieno. Caffe'. Ci mettiamo le tute antipioggia sopra i giubbotti e i jeans, paracollo, casco. I guanti sempre alla fine...ripartiamo. Peso sul destro, colpetto in giu' in punta di stivale al pedale del cambio, lascia la frizione. Seconda di tacco sul bilancino, punta dello stivale comodamente appoggiata ai marciapiedi che sono le pedane, apri e sei gia' sulla corsia di accellerazione, porto la terza in coppia a 3800 giri e la tengo li, due dita sulla manopola. Entro in autostrada accenando una piega, metto la quarta, rilascio di colpo e la moto rimbalza dall piatto della frizione mentre arriva il gas. La Ragazza si fionda in avanti. Non c'e' nessun altra analogia per questo movimento. In stabilizzo 120 a 3800 giri, nel vertice della curva di coppia. Assesto il sedere sulla sella, sento Anna che viene piu' avanti per mettere tutta la testa nel bozzolo d'aria tranquilla generato dal paravento. Occhi sulla strada, poco al disopra del margine del paravento stesso. La California II va come un treno. Quelli del marketing alla Guzzi oggigiorno chiamano le sue discendenti cruiser, incrociatore. 
Le Calabrie non finiscono mai, e l'autostrada e' piena di camion. Si incrocia sul lungomare. Qui si va veloce, si cavalca il ritmo del traffico e non ci si distrae mai. L'adrenalina si sente gia'.

Mi ricordo di avere comprato, all'inizio, uno di quei cosi a batteria per parlarsi da dentro il casco, ma in autostrada non si poteva usare: occorreva rallentare sotto i cento perche' ci si capisse: troppo rumore di fondo. Lo buttai via presto. 

L'autostrada e' buia. Solo le uscite sono illuminate, ragni di luci gialle seduti sul nero degli oliveti. 
Ogni quaranta chilometri c'e' un'area di servizi, ma non ci fermiamo se non non arriviamo piu'. Cammino quasi al centro fra le due corsie, poco a destra delle strisce. La discesa e l'attraversamento della piana di Lamezia Terme passano come un sogno rettilineo: l'odore di bosco dell'interno ridiventa brevemente odore di limoni. Credo che per andare a Cosenza si giri a destra di qui, ma chi c'e' mai andato a Cosenza? L'unico cosentino che ho conosciuto fu quello che si dava arie in terza elementare perche' essendo di Cosenza, lui era del nord
Il paravento, la sella, le pedane e sopratutto il largo ma basso manubrio mi consentono di stare seduto col tronco eretto, ginocchio sinistro giu', stivale appoggiato in punta alla pedana e di tacco sul perno del bilancino. Piede destro appoggiato piu' avanti. Comodissimo. Naturalmente guido con due mani e tengo ginocchia e stivali ben dentro. Queste cose non si fanno durante le fiondate.

Dopo Catanzaro l'autostrada si spopola e sale veloce verso il Pollino. Di giorno si vede, di fronte, massiccio molto piu' grande dei vicini. Dall'altro lato, chissa' quanto lontano, le terre dei Lucani. L'autostrada gli sale sulle ginocchia e piega decisamente a sinistra, verso Napoli. Qui c'e' un benzinaio che mi piace, in una piazzola in bilico su una cresta spazzata dal vento. Davvero. Ci fermiamo per un caffe' e una sigaretta, ma io ho fame e mi prendo uno sfilone imbottito di fette sottile di capocollo piccante, che da queste parti e' buonissimo fin dal tempo dei Greci. Non mi viene in mente niente altro di positivo sui calabresi. Ha ragione Camilleri. 

Sposto la moto al riparo dal vento, sotto un camion di Comiso carico di ortaggi fermo per la notte, tendine tirate. Mi sgranchisco le gambe, Anna va in bagno. Casco sullo specchio, collo aperto, guanti fra il paravento e gli strumenti. Non c'e' freddo ma il vento e' fastidioso. Comincio ad arrotolare un pezzo di cartoncino fra l'indice e il pollice. Torna Anna, le do' il fitro gia' fatto, sorrido e vado a mia volta a lavarmi le mani per poi finalmente pisciare. Ahhhhhh... faccinarossa.gif

Dopo il Pollino l'autostrada ha alcuni dei suoi piu' bei viadotti e ponti, mentre sale verso il passo intorno ai mille metri che e' il punto piu' alto nel percorso da qui a Bologna. Naturalmente non ho idea di come si chiami il passo: non me lo ricordo piu'. Anna ha fatto la canna, ma qui se la fumerebbe il vento. Mettiamo in tasca e ripartiamo. C'e' freddo, e' tardissimo e non c'e' quasi nessuno. Meglio sbrigarsi. La lunga salita si fa sentire sulla quinta della moto carica. Scalo marcia e la riporto a regime in quarta, liscia come l'olio a 120. Oltre il passo, mentre la strada si abbiscia a curvoni fra le montagne e i viadotti, gallerie occasionali attutiscono l'oscurita'. Ma solo le entrate sono illuminate: in galleria ci vai coi tuoi fari. La Ragazza oltre al suo faro rotondo ne ha altri due piu' piccoli ai lati, rotondi e non spessi: luci di profondita'. Non le uso quasi mai.

Alle prime luci dell'alba siamo sopra Salerno, fuori dalle oppressive valli della Campagna. 
Qui c'e' la grande deviazione che con un largo giro all'interno evita le citta'. Si arriva oltre Napoli in fretta. Peccato che da questa autostrada Napoli non si veda. La Tangenziale invece, in moto e all' ora di punta e' una dose di adrenalina solo a passarci. 
Ma noi stiamo andando a Roma. Ci fermiamo per benzina e colazione con smorfie, perche' da qui il caffe' gia' non e' piu' buono, e camminiamo fino agli alberi a fumarci la canna in pace. Un attimo di rilassamento ci vuole, camminando sento ancora l'eco attutita del respiro del motore nelle orecchie, e nelle vene.

*disclaimer: il periodo precedente all'asterisco e' perfettamente verosimile, ma del tutto inventato, mancando l'autore della memoria adatta per ricordarsi queste cose esattamente, ma in compenso dotato di ottima pigrizia selettiva. ani_biggrin.gif