Thursday 5 February 2009

In memoriam

Se n'e' andato, e io non sapevo nemmeno che stesse male. 'Da pochi mesi', mi dice una voce che conosco ma che non riesco ad abbinare ad un viso al telefono, dalla Sicilia, stamattina prestissimo. Ero gia' sveglio, tentando di riassorbire il jetlag delle ultime settimane. 
'Non ne sapevo niente'. 
'Lo sai come sono in famiglia', aggiunge la voce che esce dal telefono. Se lo so. Gente riservata, che ha sempre tentato di non dare nell'occhio. E di non raccontare molto delle faccende proprie, neanche agli amici. 

Quinto di sette fratelli e sorelle, la mia eta'. 'Ai polmoni', dice la voce. 'Il funerale domani, a casa'. Non c'e' niente altro da dire, ci salutiamo, chiudiamo. Riprendo il libro che stavo leggendo, e mi risdraio sul sofa. Dietro di me, dalla finestra, la luce dell'alba schiarisce il cielo oltre il profilo dei grattacieli di Hong Kong. 

Il libro e' uno sconosciuto romanzo ambientato fra gli Anglo-Indiani poco prima dell'indipendenza. Molto bello. Decido di non pensare e mi rimetto a leggere - tutti dormono ancora. Leggo tre o quattro pagine prima di rendermi conto che non sto assorbendo niente. 

Suppongo che sia un'altro dei riti di passaggio della vita, quando uno muore, e per la prima volta ti rendi conto che non e' qualcuno piu' vecchio di te, ma uno dei tuoi contemporanei. Uno con il quale sei cresciuto, hai condiviso e fatto cose assieme. Una persona a cui tieni. E ora non c'e' piu, e nessuno vedra' mai piu' il suo sorriso sotto i baffi, il suo passo silenzioso, i quasi riccioli senza forma, la sua figura alta e magra e sempre uguale a se stessa, come impervia al passare del tempo. 

Era il 1979, forse le due del pomeriggio, ed io ero bloccato dentro i cancelli del liceo, assieme ad un cretino di LC, mio compagno di classe, il quale non so cosa avesse fatto il giorno prima durante una manifestazione del Fronte. Ed oggi siamo li', ancora al liceo dopo che se ne sono andati tutti, a pensare a cosa fare mentre dall'altro lato della strada una bella squadra di fascisti con bandiere arrotolate attorno a manici d'ascia aspettano che lui esca per fargli un discorso. E io, come al solito in quegli anni, nel mezzo, per curiosita' piu' che altro. I tipi non osano attraversare la strada e venirselo a prendere dentro la scuola - sanno che prima o poi dovra' uscire - ma non hanno nemmeno intenzione di andarsene. Finalmente il preside chiama i carabinieri, i quali vengono a prenderselo e lo portano a casa in sicurezza con la loro auto. La delusione nei volti dall'altro lato della strada e' grande, ma contano di rifarsi sull'amico rimasto: io. Mentre penso che se lasciassi i libri a scuola potrei anche riuscire a distanziarli a piedi - ma forse no, c'e' sicuramente qualche calciatore nel gruppo, una 127 bianca frena davanti al cancello. Si apre lo sportello, una voce dice 'sali!' e io salgo, anzi mi ci tuffo dentro. L'accelerazione richiude lo sportello, una nuvoletta e uno stridio di gomma bruciata e' tutto quello che rimane ai fascisti - non gli e' andata bene oggi. Mi giro, mi lascio cadere sul sedile e sbotto in un sospirone di sollievo. Poi lo guardo e gli faccio 'E tu chi sei?'
'Piacere mio. Enrico. Tu giochi a basket con mia sorella Anna'

Quella fu la prima volta che lo incontrai, ventinove anni fa. La mia memoria nuota fra ricordi che affiorano come gli scogli fuori dalla caletta al mare fra i bracci di lava dove sorge casa sua. Mi ricordo come si appassiono' subito al windsurf, e il tempo che ci passava. Ricordo le competizioni di tuffi, a chi si tuffava dallo scoglio piu' alto, o da quello piu' difficile. Che io sappia, solo noi due siamo stati tanto temerari - o incoscienti - da tuffarci dalla terrazza di casa sua, le dita dei piedi precariamente aggrappate all'orlo, la balaustra dietro la schiena, mirando ai tre metri di larghezza della caletta e ignorando gli scogli neri di lava da entrambi i lati. Cose da ragazzi. 

La Sicilia gli stava stretta. Ci fu una storia d'amore che fini' male, se ne ando' a lavorare nella piattaforme petrolifere. Prima in Libia, poi in Siberia. Tornava ogni tanto, di solito d'estate. Aveva un Guzzi Le Mans 850 rosso, e lui fu l'unica persona con cui facevamo ogni tanto scambio di motociclette. Voglio dire, la moto non si scambia connessuno - e' come una donna. Non si presta. Ma per qualche motivo non era un problema con Enrico. Quando aveva una ragazza da portare in giro si prendeva la mia California II, parcheggiata nel cortile di casa - tanto io passavo l'estate al mare a casa sua - con la quale era molto piu' facile e comodo scarrozzare ragazze in giro, e mi lasciava le chiavi della sua, con la quale io andavo in giro nelle notti d'estate. Sul Le Mans bastava aprire un po' il gas in quarta per fiondarlo da 70 a 150 in tre respiri e una marcia a salire, nelle ossa quel rombo che faceva scattare gli allarmi delle auto parcheggiate. 

Nell'inverno del 1988 trovammo una settimana libera, e partimmo assieme per competere nel Moto Guzzi Winter Trophy. Era una cosa semplicissima: bisognava passare da nove localita' le cui iniziali formassero le parole 'MOTO GUZZI'; fotografare la moto con la targa visibile sotto il cartello stradale con il nome della localita', e mandare una cartolina a Mandello del Lario da ognuna delle localita' stesse. Chiunque avesse fatto il maggior chilometraggio avrebbe vinto. Fu una gran settimana: risalimmo la calabria, passammo dalla Campania, arrivammo in Abruzzo, poi in Molise, scendemmo in Puglia, Lucania e poi di nuovo Calabria. Facemmo le foto, dormivamo in tenda (ed era dicembre), ci fermavamo qua e la' per mangiare o per guardare il panorama - ma mai piu' di dieci minuti perche' avevamo i giorni contati - fu un tour de force, forse tremila chilometri, e ci divertimmo moltissimo. La Moto Guzzi ci mando' due orologi dedicati al Winter Trophy, di cui entrambi eravamo segretamente orgogliosi. 

Un giorno torno' dall'oriente, dove aveva cambiato settore - dal petrolio ai pastifici - con una moglie vietnamita. Era carina, mi ricordo, e in famiglia, abituati a queste cose (storia lunga), la accolsero bene. Ma lei non si trovo' bene lontana da casa, e presto se ne torno'. Enrico fu filosofo, non si scompose. Nel frattempo pero' me ne ero andato io dall'Italia. Ci tenevamo in contatto tramite Anna: E' a Grenoble - di nuovo in Russia - in Saudi Arabia. La volta successiva che io tornai in Italia lui era a Milano, dove stava finendo un lavoro. Mi telefono': Mi aiuti a portare giu' la Guzzi? Presi il volo Catania-Milano con il giubbotto, i guanti e il salvacollo in tasca, il casco come bagaglio a mano. Mi venne a prendere all'aeroporto, ci fermammo a cenare da un cinese, poi ci mettemmo in autostrada. 150 fissi, Cambiavamo posto ogni tre o quattro ore, uno guidava, l'altro dormiva appoggiato alla schiena davanti, il rombo e il ritmo del grosso bicilindrico che davano una sensazione di sicurezza, come un cullare. Fu una fiondata unica fino a Catania, una notte e mezza giornata senza fermarsi se non per benzina e sigarette. Quando arrivammo Anna ci aspettava con le canne e il vino nuovo della campagna. 

Mi ricordo il tempo e il sudore per costruire un paddock per i cavalli, in campagna dal fratello. La polvere, il caldo d'agosto, il legname, i buchi per terra, i mucchietti di chiodi lucidi fra l'erba gialla. 
Mi ricordo la sua ragazza di quel periodo, Giusi, entrare urlando nella stanza della televisione una sera tardi, mentre giocavamo a briscola in cinque. 'Venite presto, Enrico sta male, e' diventato tutto rosso, sembra un peperone, e' caldissimo, le lenzuola gli bruciano la pelle...'. Attonimento generale, poi l'altra Giusi, gia' medico a quel tempo marcio' nella camera da letto ordinando a tutti di rimanere seduti e di non muoversi. Per un po' ci fu un viavai dalla camera alla cucina, bacinelle di acqua fresca, pomate e creme, mentre noi giocavamo fra alzate di sopracciglia e sguardi dubbiosi. Quando torno' le ridevano gli occhi. 'Tutto a posto, non c'e' di che preoccuparsi. Una semplice irritazione dell'epidermide, come un'allergia. Ho detto a Giusi di lasciarlo in pace per qualche giorno e sara' come nuovo...' Fra gli sguardi attoniti di tutti uno dei fratelli chiese: 'Come sarebbe a dire?
Semplice...scopare troppo con questo caldo puo' causare eruzioni cutanee e irritazioni generalizzate della pelle, che e' quello che e' successo a vostro fratello. Se Giusi riesce a controllarsi non c'e' problema
Ridemmo per molto tempo di questa storia. Non Giusi, la quale per il rimanere dell'estate fu soprannominata 'la vespa'. 

Eravamo assieme quando scoprimmo il cibo degli dei, qualche pagina piu' su. E molte altre occasioni che ora non voglio o non riesco a ricordare. 

Enrico parti' poi per l'Africa occidentale, e qualche tempo dopo porto' a casa un'altra moglie, questa volta dal Senegal, o forse dalla Sierra Leone. La storia e' molto piu' complicata di cosi', mi sembra che una delegazione di fratelli sia andata a trattare con la di lei famiglia per suggellare il contratto di matrimonio - non sono sicuro, io ero a Londra a quel tempo. Certo e' che la moglie era - e' - bella e altera, come la famiglia in cui si era sposata. Con lei ebbe uno splendido maschietto, un furbone di bambino, uguale a suo padre nel sorriso e nel farsi volere bene. Credo ora abbia cosa, forse sette anni, otto? Spero abbastanza per ricordarsi di suo padre quando lui stesso sara' un uomo. 

E le cose che non si ricorda, ci sara' chi gliele raccontera'. 

Enrico, 1960 - 2008. In memoriam

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