Monday 2 March 2009

archivio (61) Una serata sportiva

Novembre 1991. Sono appena tornato in Ismailia dopo dieci miserabili mesi trascorsi in Italia, nelle colline metallifere fra Siena e il mare. 
Sono tornato in Ismailia a lavorare per una ONG inglese. Mi hanno preso perche' ho esperienza del paese. Se hanno dubbi sulla capacita' di un italiano ad accettare a adottare la loro etica lavorativa non lo danno a vedere.
Mi presento al lavoro il giorno dopo il mio arrivo. Il capo progetto e' una donna. Alza la testa dalla montagna di carte sul tavolo, si alza, mi stringe la mano, mi da' il benvenuto. Mi chiede se voglio un caffe'. Dico si, e mi mordo il labbro, ma e' troppo tardi. Lei stessa si alza e va in cucina (l'ufficio e' in una casa affittata nei suburbi della capitale). Torna con due boccali di plastica pieni di risciaquatura di piatti Nescafe'.
Mi aspetto un periodo di adattamento e di introduzione, ma sbaglio.
"Conosci l'ex caserma della Guardia Imperiale?"
"Quella fuori citta', sulla strada per Embo?"
"Quella. Vi abbiamo installato una clinica di emergenza tre mesi fa quando i Ghimbini sono entrati nella capitale. Ieri la nostra gente la' mi ha mandato questa lista di cose di cui hanno bisogno. Vai in magazzino, fai il carico e portaglielo. E quando torni dimmi cosa ne pensi".
"OK capo"
Sorride, ma non davvero. "Non mi chiamare capo"
Chiudo la bocca, mi ricordo che questa donna era qui da sola a tenere i progetti in funzione mentre le bombe esplodevano, le ambasciate evacuavano, i bianchi fuggivano e i ribelli Ghimbini marciavano sulla capitale, solo pochi mesi fa. Prendo la lista, annuisco e vado. Lei e' gia' concentrata su qualche altra cosa.
Il magazziniere dell'Organizzazione e' un vecchio Ismailita grinzoso con un sorriso grande come una casa. Mi presento, gli dico chi sono e che sono nuovo, gli do' la lista. Si siede al suo tavolino, inforca un paio di occhialoni a fondo di bottiglia e ridacchia fra se' e se' in Amende "Hihihi...troppo lavoro oggi, troppo lavoro per il vecchio Bekke..." si alza lentamente, si avvia verso gli scaffali. Prendo uno scatolone vuoto e lo seguo. Disinfettanti, bendaggi, garze, antiinfiammatori..lo scatolone e' presto pieno, ne prendo un'altro, poi un'altro ancora. Sembra che stia andando a rifornire un pronto soccorso. Antibiotici. Antimalarici. Vitamina A. Reintegratori salini per dissenteria, ancora antibiotici...Aureomicina. Questo vuol dire stafilococchi...quando il carico e' pronto il vecchio Bekke mi dice "Vai a farti dare una macchina"
L'autoparco e' una baracca di ferro ondulato in un angolo del cortile. C'e' una bacheca con numeri di targa, chiavi appese ed un registro. Non c'e' nessuno in giro, ma decido che non ho tempo da perdere. Prendo un mazzo di chiavi, firmo il registro, trovo la macchina, torno da Bekke, carico, firmo il suo registro, mi da' una copia dell'ordine e mi manda via. 

Il posto non e' a piu' di un' ora fuori citta', vicino. Lo scenario dell'altopiano e' familiare. Novembre e' tempo di raccolto: gialli covoni nuovi si ergono accanto alle capanne degli Ismailiti, i campi tosati da poco seccano al sole primaverile. In quasi ogni aia mucche e buoi legati assieme girano in tondo sulle spighe per terra, trebbiano come si trebbia da migliaia di anni. Le donne raccolgono le spighe in mucchi, gli uomini le alzano al vento con pale di legno intagliate a mano. La pula vola via come polvere ad ogni alzata di pala.
Mi scuoto. Ismailia e' bella. Guarda la strada. Stai portando medicine. Accellera. Sigaretta.
Arrivo alla caserma. E' chiusa da un alto muro. Le sentinelle sono Ghimbini, capelli afro, giacche mimetiche e sandali. Kalashnikov in braccio. Vedono il simbolo dell'organizzazione dipinto sullo sportello e mi fanno entrare senza fermarmi. Dentro, grandi spazi. lunghe baracche a dormitorio, a dozzine. Piazza d' armi. Mi guardo in giro, seguo le frecce dipinte a mano verso la clinica. 
Chi sono questi? mi chiedo. dozzine, centinaia di uomini. In stracci. Senza scarpe, tutti con cio' che rimane di una divisa addosso. Prigionieri, ecco cosa sono. Amende. Soldati dell'ex Repubblica Socialista di Ismailia, crollata pochi mesi fa come il Muro di Berlino poco prima, abbattuta dal crollo dell'Unione Sovietica, dallo scontento interno, dalla poverta' e dai Ghimbini, confermatisi guerrieri duri come i loro antenati.
Raggiungo la clinica, parcheggio accanto alle altre macchine dell'organizzazione. Ci sono due infermiere, una inglese ed una irlandese, piu' qualche civile Ismailita che lavora per noi. Una lunga fila di prigionieri aspetta fuori, snodandosi attorno alla baracca, tentando di tenersi all'ombra. Vedo bendaggi sporchi di sangue, intravedo moncherini coperti di garza. Un paio di guardie tengono d'occhio, ma tutti sembrano molto rilassati e tranquilli. 
Non faccio perdere tempo a nessuno, scarico e porto dentro il materiale. L' irlandese ha i capelli rossi ed e' grassottella, ma quando mi stringe la mano mi fa quasi male. Rapidamente controlliamo la consegna, firma, ciao, ci vediamo piu' tardi. 
Esco, risalgo in macchina, guido verso l'uscita, piano. Attraverso la piazza d'armi. Prigionieri ovunque. Mi rendo conto che sono tutti ufficiali e sottufficiali, non vedo nessun soldato semplice. Improvvisamente vedo qualcosa muoversi in un angolo della vasta piazza e mi fermo a guardare meglio. Hanno teso uno spago fra due baracche, e stanno giocando a pallavolo con una palla fatta di stracci. Ma si muovono in maniera strana. Guardo meglio. Due sono senza una gamba, saltellano su quella rimasta. Altri hanno un solo braccio. E c'e' uno seduto per terra, si muove sulle mani, rapido come un ragno, va sotto la palla, la colpisce. Non ha gambe.
Non resisto, me ne vado. Torno in citta'. 

Arrivo, riferisco alla capo. 
"Cosa ne pensi?"
"La clinica va bene, le infermiere sanno il fatto loro. I prigionieri non hanno niente da fare. Quando li lasceranno andare?"
"Chi lo sa? erano ufficiali, politicamente indottrinati. Vorranno essere sicuri di consolidare il controllo prima di lasciarli andare".
La guardo negli occhi. Difficile, feriscono lo sguardo da quanto sono azzurri. "Senti, ho visto che tentano di fare sport, giocano con palle di stracci come i bambini di strada. Potremmo dagli qualche palla vera?"
"Mmm...non vedo perche' no"

Passo il resto della giornata a capire come funziona l'organizzazione. Ragioneria, contratti, logistica, progetti, personale. Il tempo vola.
Alle cinque esco e vado in citta'. Se c'e' una macchina libera ho il permesso di usarla, la nafta e' a mio carico.
Trovo il negozietto dove ricordavo che fosse. Articoli sportivi, fatti in Cina. Compro una rete e due palle da pallavolo, una palla da calcio vera e una pompa a mano. Poi, sentendomi molto stupido, ritorno alla prigione. Arrivo poco prima del tramonto. Le guardie fuori sono le stesse e mi fanno entrare senza dirmi niente. Vado direttamente dove avevo visto che giocavano. Non c'e nessuno, ma c'e' lo spago. Ci vado sotto e lo guardo da vicino: strisce di stracci annodate. Torno in macchina, prendo la rete nuova che ho portato: e' un affare di nylon verde, niente di speciale ma regolamentare. Torno sotto lo spago, salto, lo afferro a due mani e lo strappo giu'. Poi procedo ad appendere la rete. E mi rendo conto di avere fatto una cosa stupida: non arrivo alla grondaia dove era appeso lo spago, e non ho scale...qualche prigioniero comincia a fermarsi per vedere cosa sta facendo questo stupido ferengi
Prendo la macchina, la parcheggio sotto la grondaia, salgo sul cofano, annodo la rete, sposto la macchina, annodo l'altro lato. Levo la macchina da mezzo i piedi. Che polvere. Sto facendo un rodeo fra le baracche, tutto da solo. Scendo, annodo la rete sotto, la tendo. Faccio qualche passo indietro, guardo. Va bene. 
Prendo la palla dalla macchina. Sono in jeans, scarponcini e camicia. Vado sotto rete, mi giro, alzo la voce "Chi vuole giocare?"
Ci sono una dozzina di prigionieri intorno. Uno si avvicina. Non e' Ismailita, nonostante abbia la divisa con le insegne dei carristi, seppure a brandelli. E' sudanese. Si vede dalla faccia, dal colore della pelle, dalla statura e dalle cicatrici tribali. Mi guarda, in perfetto inglese mi chiede: "Perche' stai facendo questo?"
"Perche' no?"
Gli passo la palla. Lui la prende al volo, la stringe fra le le mani, con un colpo di polso la fa roteare sul dito. Un sorriso bianchissimo gli si allarga sul volto.
"Giochiamo"
In pochi minuti abbiamo fatto le squadre. Con mia sorpresa gioco anche io. Avevo creduto di dar loro la rete ed andare, ma gli Ismailiti non accettano la carita' cosi' facilmente. Voglio che giochino? devo fargli vedere di essere in grado di farlo io stesso.
Ringrazio gli anni al liceo, quando il prof di educazione fisica faceva giocare invariabilmente solo a pallavolo perche' era un fissato...io la odiavo, all'epoca ero gia' un giocatore di basket...ho giocato a basket per quindici anni...comunque a pallavolo me la cavo. E meno male. Il sudanese non mi risparmia. Ha un alzatore con una gamba amputata sotto il ginocchio il quale gli mette la palla a filo di rete senza neanche guardarla. Il sudanese arriva da dietro raccolto come il leopardo, si alza, si stende, schiaccia come un martello. La palla alza nuvole di polvere da terra. A fare muro siamo io e un Ismailita coi baffi. Lui ha una mano sola, l'altro braccio gli manca dalla spalla in giu. Ma salta come un grillo, e con tre mani muriamo il sudanese efficacemente. 
La mia squadra ha il tipo senza gambe: sorride come un ragazzino a giocare con la palla vera. Ha il disotto dei pantaloni imbottito con stracci, si muove sulle mani, braccia gonfie di muscoli, va sotto i pallonetti, alza bene.
E' una partita vera: nessuno risparmia nessuno. Il sudanese ed io siamo gli unici ad avere tutti gli arti. Si suda, si grida, si combatte sotto rete. Mi alzano la palla, e dopo un paio di tentativi mosci mi ricordo come si schiaccia, e ci prendo gusto. L'altra squadra ha un tuffatore incredibile, arriva alle palle piu' lontane. Non ha le mani, colpisce di avambracci, giunti ai moncherini dei polsi, come se pregasse. Ma ha un sorrisone in faccia. Giochiamo fino a che fa buio. Vinciamo, la folla esulta. La folla?....mi guardo intorno: sembra che ci sia tutto il campo di prigionia a vedere la partita.
Suona la chiamata al rancio serale per i prigionieri. Do' loro le altre palle che ho portato, saluto, strette di mano, pacche sulle spalle mi piovono da tutte le parti. Il sudanese mi mostra il pollice alzato. Le guardie mi fanno segno di andarmene. 

Mi sono divertito moltissimo.